Perché abbiamo bisogno di una grammatica sostenibile

Il modo in cui qualcosa viene detto può modificarne radicalmente il senso e il significato percepiti dal destinatario: vediamo perché la grammatica deve essere sostenibile

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Annuncio economico: “Vendo cane pastore maremmano; mangia tutto;

gli piacciono i bambini”

Achille Campanile

A colui che si chieda perché la lingua, in specie quella digitale, dovrebbe essere sostenibile e, soprattutto, perché ci impegniamo a proporre una grammatica sostenibile rispondiamo con un esempio diretto e concreto. Immaginiamo, pertanto, di scrivere in un post, all’improvviso, che “Tizio è pericoloso”. La motivazione non conta. Lo scriviamo seccamente. Dopo un po’, uscendo da casa, andando al bar incontriamo degli amici e ribadiamo che “Tizio è pericoloso”. E così pure in famiglia, sul posto di lavoro e in tutte quelle circostanze sociali in cui ne abbiamo l’opportunità. Indubbiamente, saremo querelati. Nel frattempo, tuttavia, abbiamo insinuato il dubbio all’interno della comunità digitale, abbiamo marcato socialmente l’identità di Tizio.

Ai più parrà strano, ma anche la calunnia, l’oltraggio, l’inganno sono modi dell’informazione. Vien fatto di chiedersi, allora, cosa sia realmente l’informazione. Senza incomodare i filologi, possiamo asserire che essa consiste nel dar forma a qualcosa, dato o notizia, che viene immediatamente trasferito ad altri, lettori o ascoltatori che siano. In questo processo, che oggi si consuma rapidamente, l’atto dell’informatore è unilaterale. La messa in rete, per così dire, non comporta modifiche di contenuto e significato; può essere soggetta a critiche e contestazioni, ma si contraddistingue per univocità. Quel giudizio, “Tizio è pericoloso”, diventa subito un marchio, il marchio della bestia, quale che sia il suo valore di verità; si espande in una sorta di mente collettiva e assume le forme che gl’interpreti a esso vogliono conferire. La sua diffusione, tra le altre cose, è basata su un potente meccanismo di deduzione: anche se si tratta dell’unico vero motore della ‘propaganda’, spesso, lo ignoriamo del tutto o, forse, lo sottovalutiamo. L’ambiguità e la vaghezza di un termine, di un sintagma o di una frase, paradossalmente, non allarmano il destinatario; al contrario, lo spingono a dedurre dei significati che, talora, sono inesistenti. Ne consegue l’unico vero pericolo.

Con un altro esempio, possiamo fare un passo avanti in termini di trasparenza. Se da un pulpito ‘blasonato’ si urla “Noi dobbiamo rivendicare la libertà di cura”, specialmente in un periodo d’emergenza sanitaria, di fatto, non si dice “Siamo vessati”, “I vaccini fanno male” et cetera, ma lo si lascia intendere. Nella pragmatica del linguaggio, questo modulo di significazione prende il nome di presupposizione, ovverosia un elemento che non è presente nella frase, ma che agisce in profondità. Si comprende, a questo punto, quanto possa essere devastante il potere della parola. La parola può essere voluttuosa e seduttiva, salvifica e terapeutica, ma anche insidiosa e dannosa.

È bene dunque riproporre l’interrogativo focale di questo contributo: perché una grammatica sostenibile? D’altronde, il termine “grammatica” fa pensare a tutto ciò che è normativo, regolativo, imperativo, sistemico. In sintesi: noioso. Sono noiose le grammatiche fraintese, ‘tramandate’ come informazione, per l’appunto; sono noiose perché il narratore s’impegna solo a fare rispettare un certo “si può fare o dire”. La grammatica è, anzitutto e per lo più, un modo della relazione, di ciò che ci lega direttamente o indirettamente. Già nel donare il cosiddetto like a qualcuno, ci proponiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, come generatori di sensi e significati, ci lasciamo rappresentare da segni, simboli e codici, che, a propria volta, sono essi stessi una lingua.

Nel 1952, Dwight D. Eisenhower, detto Ike, si candidò alla presidenza degli Stati uniti d’America e affidò il compito di curare la campagna di comunicazione a Peter George Peterson, comunicatore raffinato e arguto e che finì col diventare capo del dipartimento del commercio. Quest’uomo produsse lo slogan più fortunato della storia dei popoli: I like Ike, accompagnato da un pollice all’insù. Sono trascorsi quasi settant’anni da quell’intuizione, eppure quel pollice è sempre davanti ai nostri occhi come pulsante di Facebook. Lo usiamo con tanta disinvoltura e al buio.

Nel 1939, il governo britannico, come tanti altri governi dell’epoca, oltre a dovere affrontare la guerra, dovette gestire la psicologia delle masse. A tal fine, formulò e fece circolare il seguente messaggio: Keep calm and carry on, mantieni la calma e va’ avanti! L’esortazione, di per sé, appare irrilevante: chiedere calma in un periodo di guerra o pandemia sembra alquanto derisorio. Probabilmente, nessuno immaginava che, sessant’anni dopo sarebbe diventato un meme, quantunque ormai lontano del significato originario. Cosa dire a questo punto dell’atto linguistico rappresentativo “Andrà tutto bene”? Alcuni ne ridono, altri se ne dicono addirittura offesi, altri ancora si dichiarano indifferenti: quasi tutti, per un motivo o per un altro, ne fanno uso. È evidente che, qui, non stiamo prendendo posizione a favore dell’uno o dell’altro degli schieramenti; stiamo solo osservando e descrivendo l’effetto innegabile di un fenomeno linguistico.

Il modo in cui diciamo qualcosa può modificare radicalmente il senso e il significato percepiti dal destinatario: un aggettivo al posto d’un altro, un verbo fuori posto, un sostantivo improprio possono causare trasformazioni socio-linguistiche e comportamentali che, talora, neppure lo stesso autore del messaggio è in grado di prevedere. Nell’epoca dell’indiscutibile presenza ubiquitario-digitale, una virgola sposta pure l’asse degli interessi. Non ci si può sottrarre al dovere di ridefinire e riproporre continuamente una grammatica che non sia sostenibile.

Al punto 6 del Manifesto per la Sostenibilità Digitale, leggiamo: “l’impegno maggiore dell’uomo deve essere nel comprendere come la tecnologia sia funzionale ad esso, e non il contrario. A tale scopo dobbiamo tentare di orientarne gli sviluppi perché produca, strumentalmente, impatti positivi sulla società.” Per “esso” s’intende il benessere della compartecipazione digitale; e, come abbiamo notato, l’uso adeguato e ‘misurato’ della lingua istruisce il benessere stesso, lo precede, lo forma. La grammatica sostenibile si configura, quindi, come opportunità di relazione e, diversamente, di conquista del benessere.

L’azienda che voglia farsi riconoscere adeguatamente, il politico che abbia il buon senso di rinunciare alla vacuità del discorso per guadagnare consensi reali, l’utente che intenda giovarsi autenticamente dell’esperienza digitale, come tutti coloro che, in un modo o nell’altro, per passatempo o per lavoro, sono nodo della rete non possono sottrarsi all’impegno della sostenibilità.

Prima di tutto, occorre accogliere l’idea della sostenibilità digitale, sentirsene parte attiva. Quando si parla di grammatica sostenibile, infatti, non c’è membro d’una qualsivoglia comunità che possa esserne escluso. In pratica, tutti noi possediamo degli istinti di aggregazione, istinti che ci permettono di superare l’individualismo, ci difendono dai pericoli e danno continuità alla nostra specie. All’epoca della tratta degli schiavi destinati alle piantagioni di tabacco, cotone, caffè e zucchero, i proprietari, per evitare che si creassero pericolose coalizioni tra i lavoratori, escogitarono l’espediente di mescolare parlanti di lingue diverse; la qual cosa, però, non impedì affatto agli schiavi di instaurare delle relazioni linguistiche. Presto, infatti, ne nacque il Pidgin, un gergo con una grammatica essenziale e che prendeva in prestito la lingua dei colonizzatori. In seguito, i figli dei lavoratori, esposti fin dalla nascita al Pidgin, si appropriarono definitivamente del gergo di fortuna. La relazione precede ogni aspetto della nostra esistenza, anche quando sembra che nulla ci riguardi o tutto sia distante. Noi siamo felici o tristi in relazione a una certa collettività che definisce i concetti di felicità e tristezza; e così pure un oggetto: esso ha valore in relazione a quella stessa collettività che lo reputa utile o meno. Dunque: chi elabora immagini e parole da collocare, semplicemente, sul web o, in particolare, sull’account business d’un’azienda qualsiasi deve operare secondo i principi fondamentali della sana coesistenza reale.

Ecco perché la grammatica dev’essere sostenibile.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here