Il punto e virgola è ancora in vita?

Dal punto e virgola all'anadiplosi, passando per l'anacoluto: scarsi e spesso errati utilizzi nella nuova lingua della rete

Foto di Tom Magliery (https://www.flickr.com/photos/mag3737/2601376306)

Infatti, l’inconscio opera una scelta nella massa
dei fenomeni, si apre a ciò che vuole lasciare penetrare
in sé e preclude l’accesso alle impressioni e alle loro conseguenze

H. Groddreck, Il linguaggio dell’Es

 

Si informano i lettori che il punto e virgola è ancora in vita e, tutto sommato, gode di buona salute. Sì, è vero, non lo si vede in giro, ma è altrettanto vero che si tratta di un tipo schivo, taciturno; insomma, incline più all’introversione che alla giovialità. Ecco: ne abbiamo appena fatto uso, tra “taciturno” e “insomma”, ma lo abbiamo fatto con discrezione e non senz’apprensione! Allo stesso modo, abbiamo aggiunto un punto esclamativo a chiusura delle proposizioni coordinate introdotte da “ecco”, pensando di fargli cosa gradita. Il punto e virgola, per la tipografia italiana, è anzianotto: fu adottato da Aldo Manuzio nel 1501, in un’edizione del Petrarca. Ce lo racconta Luca Serianni (1989), uno che di queste vicende s’intende parecchio. Quindi, ci fidiamo di lui e andiamo avanti. A pensarci bene, però, è anziano, d’accordo, ma non più dei suoi compagni di ventura. Il fatto è che, quando si nasce e si cresce nell’ambiguità, si finisce coll’avere un carattere difficile, irritabile, ombroso. Se si è costretti a stare sempre tra la virgola e il punto, mantenendo le caratteristiche un po’ dell’una e un po’ dell’altro, prima o poi, ci sente privi d’identità e si comincia o a soffrire d’angoscia o a reagire male ed essere litigiosetti. Di fatto, è comprensibile.

Alla luce di questa complessità psicologica ed esistenziale, con l’avanzata degli scrittori globali e la conseguente digitopoiesi, il rapporto tra la gente e il punto e virgola s’è definitivamente deteriorato. I più hanno fatto di tutto per evitarlo e l’anziano signore, che già di per sé, come abbiamo detto, era permalosetto, s’è dileguato: chat, post, tweet e quant’altro ne sono ormai del tutto deficienti. Per carità, la lingua è fatta così: talora, si mostra molto tollerante e versatile; è un’astuta accompagnatrice; resta in religioso silenzio a lungo, come se non esistesse e, poi, all’improvviso, presenta i propri verdetti. A quel punto, non c’è molto altro da fare, fuorché disporsi umilmente alla sua volontà, checché ne dicano i benpensanti.

D’altronde, è risaputo: con un bel po’ di faccine si risolvono tanti problemi e l’italiano, giocoforza, deve adattarsi. Bisogna ammettere, nello stesso tempo, che l’italiano non è così irascibile e diffidente quanto coloro che da esso dipendono, tanto che alcuni hanno pensato bene di scrivere pure delle ‘operette morali’ sulla corrispondenza tra le cosiddette emoji e le parole o, addirittura, i pensieri. Altri, a dire il vero, se ne sono detti indignati o hanno ipotizzato il trionfo della superficialità (ROSSI, F., 2010). Diciamo, per correttezza, che Rossi non si riferiva alle faccine, bensì alle principali caratteristiche del registro linguistico del web, tra le quali, per esempio, la “supremazia di uno stile associativo, paratattico e scarsamente controllato”. Noi ci siamo dati alla sintesi spartana. Ci sia concesso! Se, infatti, osserviamo il fenomeno della costruzione delle argomentazioni, non possiamo fare a meno di notare che la lingua digitale è morbosamente binaria, a tal punto che la grammatica e le sue norme devono servire unicamente a distinguere i buoni dai cattivi, il bianco dal nero, i belli dai brutti e così via. Questa povertà concettuale e ideologica, che annienta l’analisi, può essere basata unicamente su costrutti elementari o, per lo meno, quanto più semplici possibile.

Dunque, il punto e virgola, essendo, per natura, stiloso, come si suol dire, non può affatto pretendere d’avere spazio. Qui, dalle nostre parti, si bada alla pancia; non si può mica perder tempo con l’eleganza e con le forme. Quando ci ‘arrabbiamo’ e rispondiamo, per esempio, a un tweet oltraggioso, non stiamo molto attenti alle pause; e così pure se abbiamo fame. Adesso, ne abbiamo usati troppi. Occorrerebbe darsi contegno. Un tempo, ci s’impegnava a produrre note, commenti et similia; oggi, ci si sbriga coi collegamenti ipertestuali. Ben vengano! Qualcuno, semmai, potrebbe auspicare una sorta di riequilibrio, come se si volesse accontentare tutti. Ma – si sa – non sempre è possibile. Anzi, nella maggior parte dei casi, qualcuno si deve scontentare. Insomma, il punto e virgola si metta l’anima in pace e perché ciò avvenga nel migliore dei modi gli offriamo un frammento del contributo del già citato Rossi, che si spera sia consolatorio: “I periodi tendono ad essere brevi e monoproposizionali, con frequente ricorso alla sintassi nominale e all’affastellamento dei sintagmi, scanditi perlopiù da un punto”.

Soprattutto, sappia – il punto e virgola – che, se interpellassimo apostrofi e accenti, scopriremmo che non se la passano meglio: “qual’è” e “pò” hanno ormai spodestato “qual è” e “po’”. Incredibile a dirsi: impunemente. Che intendiamo con questo avverbio buttato lì, a caso? Cosa si sarebbe dovuto fare? Sanzionare i trasgressori? In fondo, ognuno è libero di parlare e scrivere come gli pare. O no? Forse, qualche programmino di ‘alfabetizzazione’ generale non sarebbe una cattiva cosa. Renderebbe l’esperienza in rete più godibile e, soprattutto, sostenibile, fermo restando che ci sono delle priorità ‘biologiche’.

In effetti, qualcuno che se la passa bene c’è. Una signora, pure lei anziana, tanto da appartenere alla lingua greca, si aggira spesso tra i periodi dei giornalisti. Stiamo parlando dell’anadiplosi. Nata da genitori greci e, in particolare, da un nobile avo, ἀναδιπλόω (anadiplòo), che significa raddoppiare, è una figura retorica che consiste, come dice il suo progenitore, nella ripetizione. Nello specifico, viene ripetuto l’elemento finale di una proposizione all’inizio della proposizione successiva. Riportiamo come esempio un frammento della Gerusalemme liberata, evidenziando in grassetto l’anadiplosi.

(…) Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,
che corri sí?” Risponde: “E guerra e morte.”

Guerra e morte avrai” disse “io non rifiuto
darlati, se la cerchi” e ferma attende.

(XII, 52-53)

 

A dire il vero, i giornalisti ne fanno un uso diverso ed esclusivamente enfatico. Il più delle volte, gli autori si attengono a criteri di indicizzazione proprio mediante la ripetizione di parole chiave. Però, certo, un po’ di decoro non farebbe male. Tutti i possessori di smartphone, per esempio, sanno che Google propone ai lettori una lista di articoli, a seconda degli interessi di ‘navigazione’. È altrettanto noto che basta cliccare una sola volta su uno di questi contenuti per vederselo comparire in tutte le salse e dappertutto. Alcune proposte – diciamolo chiaramente! – sono davvero pedestri e illeggibili, fatte solo per mettere in circolazione ‘quei’ contenuti. La loro struttura linguistica, comunque, è davvero ridicola, quantunque basata sull’anadiplosi ossessiva. Un titolo a caso: “Un metodo per ottenere il meglio da WhatsApp”. Incipit: “Per ottenere il meglio da WhatsApp (…)”. Procedendo oltre, ci si rende conto che “ottenere il meglio da WhatsApp” è ripetuto tante volte da provocare la nausea al lettore, il quale, spesso, va fino in fondo proprio per capire come ottenere il meglio da WhatsApp, salvo scoprire, da ultimo, che questo ‘meglio’ non esiste.

Sì, va bene: la ripetizione, in questo caso, è un fatto tecnico: quanto più si ripete, tanto più il tema risulta reperibile sui motori di ricerca. Il dubbio che ci assale, però, è il seguente: siamo pronti a sacrificare proprio tutto alla reperibilità digitale?

L’altra domanda, quella collaterale, invece è questa: siamo davvero sicuri che l’anadiplosi se la passi meglio? O ha subito abusi?

Un altro soggetto – nell’accezione puramente e integralmente teatrale – del quale non sappiamo dire se se la passi bene o male è l’anacoluto. Questi, essendo figlio di ἀν- (an-) e ἀκόλουϑος (akòlouthos, seguace), è uno del tutto fuori degli schemi, un ribelle o, se vi piace di più, un anarchico. Se incontra una sintassi bella, pulita e ordinata, fa di tutto per scombinarla. La sua stravaganza e il suo anticonformismo devono averlo reso molto caro al popolo della rete, che se n’è impossessato morbosamente, talora senza imitare esattamente Boccaccio, Foscolo o Manzoni: “Io, questo discorso, secondo me, non è proprio bello”.  D’accordo: abbiamo esagerato un po’. Il livello medio dei post e dei tweet, molto probabilmente non si rifà al modello “Io, questo discorso, secondo me”, ma, nello stesso tempo, non mancano quasi mai i modelli “l’amico che ti puoi fidare”. Ecco il motivo per cui non sappiamo se se la passi bene o male. L’anacoluto non ha fatto la fine del punto e virgola, anzi ha conquistato il pubblico, ma, nello stesso tempo, gli è andata peggio che all’anadiplosi.

A questo punto, cioè al punto in cui ci siamo interrogati più volte sulla qualità del registro linguistico della rete e abbiamo anche immaginato un programmino di rieducazione linguistica, ci poniamo una domanda che potrebbe sembrare inaspettata: una lingua ‘più corretta’ sarebbe più sostenibile? Il linguista risponde dicendo che l’osservazione della lingua non si traduce in un giudizio di gusto né in una sentenza sulle norme da adottare. Pertanto, parlanti e scriventi sono la lingua. La sostenibilità digitale, semmai, dipende da alcuni fenomeni che possono essere sicuramente influenzati da una cattiva grammatica, ma che afferiscono principalmente alla semantica e alla pragmatica. Un po’ di pazienza, ce ne occuperemo più avanti.

 

 

Bibliografia essenziale

ANTONELLI, G., 2007, L’italiano nella società della comunicazione, il Mulino, Bologna

ANTONELLI, G., 2009, Scrivere e digitare, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma

D’ACHILLE, P., 2006, L’italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna

PISTOLESI, E., 2004, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Esedra, Padova

ROSSI, F., 2000, Dizionario di Internet, Vallardi, Milano

ROSSI, F., 2010, La lingua di internet, Treccani, on line

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