Arte e decarbonizzazione: sostenibilità e innovazione degli NFT, fra mistificazioni e pregiudizi

L’imporsi nel mercato dell’arte dei “token non fungibili” solleva grandi interrogativi sul loro impatto carbonico, complice la mistificazione generalista diffusa sulla tecnologia blockchain. Nonostante i pregiudizi, però, gli NFT potrebbero dimostrarsi complessivamente più sostenibili di quanto si possa sospettare

Il lontano mondo delle opere d’arte su supporto fisico, uniche nella loro autenticità materiale, è messo alle strette dall’incalzante innovazione digitale. Questa volta il problema non è appannaggio esclusivo della “riproducibilità tecnica”, per dirla con Benjamin. A dare origine ad un nuovo processo di trasformazione sono gli ingenti investimenti nel mercato degli NFT, i ‘token non fungibili’ creati in rappresentanza di opere d’arte fisiche e digitali.

Nonostante alcuni evidenti vantaggi per il mondo dell’arte, dei quali parleremo in questo articolo, negli ultimi mesi non sono mancate pesanti accuse di insostenibilità. Al centro del dibattito il presunto impatto ambientale derivante dalle transizioni prodotte in loro nome, che potrebbero ledere profondamente gli obiettivi di decarbonizzazione.

Al fine di valutare correttamente i risvolti ambientali dei token non fungibili occorre non concentrarsi esclusivamente su indagini decontestualizzate, ma cercare di preservare un approccio olistico TLCA. La contabilizzazione dell’impatto ambientale nel mercato della CryptoArte, infatti, deve essere valutata in tutte le fasi del processo, considerandole definitivamente correlate ed interdipendenti. Infine, occorre considerare che molta della pubblicistica in circolazione sul web è carnefice e succube del grande hype di cui sta risentendo il settore.

Alle origini degli NFT: scopi e tecnologie

Scopo dichiarato degli NFT è fondamentalmente quello di replicare la scarsità di cui naturalmente godono le opere fisiche anche per i contenuti digitali, così da rendere unico – e dunque commercializzabile – anche il lato più “etereo” e inafferrabile della rete. “L’11 marzo scorso spiega Renato Grottola, Global Director Growth and Innovation di DNV e componente del Comitato di Indirizzo del Digital Transformation InstituteChristie’s ha battuto per oltre 69 milioni di dollari un’opera di un outsider, Mike Winkelman, che è così diventato uno degli artisti più pagati di sempre. La ragione di questo exploit è nella natura interamente digitale, ma unica, dell’opera stessa, garantita dall’utilizzo di una particolare funzionalità, quella dell’emissione di un ‘token’ digitale in grado di contenere informazioni, in maniera univoca. Questa funzionalità, apparentemente semplice, segna il passaggio dall’informazione al valore in formato nativo digitale. Chi possiede, dunque, quel token, possiede un’opera univoca, che è al tempo stesso diritto di proprietà, supporto, contenuto”.

La tokenizzazione dei contenuti avviene tramite l’applicazione della tecnologia blockchain, la maggior parte delle volte Ethereum. La creazione dei token è realizzata a partire da un URL: di fatti, gli NFT non sono in sé contenuti digitali, ma semplicemente delle loro “copie autografate”. Il che significa che il loro acquisto non dà alcuna titolarità sul copyright dell’opera, né l’esclusiva sulla sua visualizzazione.

Applicazioni di tale tecnologia che, però, “vanno ben oltre il mondo delle opere d’arte – aggiunge Renato Grottola – la possibilità di creare, a basso costo, un titolo di proprietà digitale in grado di contenere informazioni, eseguire azioni al verificarsi di determinate condizioni, essere trasferibile in modalità sicura e sempre tracciabile, rende possibile attribuire un’identità completa a un bene digitale o fisico, creando un vero e proprio ‘passaporto’ di prodotto che ne contiene storia, passaggi di stato, componenti, informazioni, in una logica potenzialmente cradle to cradle”.

Fra accuse e costi ambientali: la ricerca di Akten

La questione relativa alla sostenibilità degli NFT è stata sollevata per la prima volta dagli studi di Memo Akten, pubblicati il 14 dicembre 2020 sul suo blog. Nell’articolo sono riportati alcuni dati riguardanti il costo ecologico della CryptoArte, ricavato dall’osservazione della piattaforma di scambio SuperRare. Atken sostiene che una singola transizione ETH abbia un’impronta media di circa 35kWh (equivalente al consumo di energia elettrica di un residente nell’Ue per quattro giorni).

Il vero problema è, tuttavia, nel fatto che gli scambi di NFT generano spesso più di una transizione, con un’impronta media di circa 340 kWh (211kgCO2), con delle emissioni pari ad un volo di due ore.

La situazione peggiora per le piattaforme che permettono agli utenti di vendere lo stesso lavoro più volte (realizzando le così dette “edizioni”). In questo caso, i valori sopra elencati crescono esponenzialmente: se un artista crea diverse NFT, per un supposto totale di 1500 edizioni, in meno di sei mesi queste si traducono in 160 tonnellate di CO2.

L’inizio delle mistificazioni: quando blockchain non è sinonimo di “proof-of-work”

Ma prima di passare a conclusioni affrettate, alcune considerazioni. Prima di tutto, gli NFT risentono della costruzione di posizioni preconcette attorno alla tecnologia blockchain, che risulta piuttosto abusata nella comunicazione per il grande pubblico. Di certo, è impossibile non citare le potenzialità negative della stessa.

Come leggiamo nel brief “Stustainability transition” dell’European Environment Agency: “The most well-known implication of blockchain technology for the environment relates to its energy consumption and, therefore, its possible negative impact on climate. The current standard process of transaction verification, based on the proof-of-work algorithm (PoW), is extremely energy hungry (de Vries, 2018), as it requires a huge amount of processing power, and, therefore, electricity, to run associated computer calculations”.

Facile comprendere come il problema cardine derivi dall’utilizzo del proof-of-work (PoW), ossia la validazione dei blocchi che viene effettuata tramite la risoluzione di un non poco energivoro problema matematico.

Ma la mistificazione è a portata di mano: la blockchain dei token non fungibili è, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi quella di Ethereum. Questa non si basa sul protocollo proof-of-work, ma sul proof-of-stake (PoS). La PoS è un algoritmo di consenso che, a differenza della PoW, richiede una potenza computazionale e un consumo di energia elettrica minore. In questo caso i partecipanti alla validazione del blocco mettono in gioco i propri “stare” (le monete) e il validatore viene scelto in maniera casuale.

Qualora il pregiudizio nei confronti della CryptoArte venga da un perdonabile bias cognitivo che la associa ai Bitcoin (basati sulla PoW), l’errore è evidente. Bitcoin è solo una delle cryptovalute, solo un’applicazione della blockchain. Il meccanismo di validazione che ne è alla base è modificabile, e sono già stati trovati altri validi approcci: il già citato proof-of-stake, il proof-of-authority o il proof-of- elapsed-time (Jones, 2017). Lo sviluppo di calcoli meno impegnativi potrà – e dovrà – essere esplorato ulteriormente (Jones, 2017), al fine di ridurne al minimo l’impatto ambientale.

Ricordiamo, allo stesso tempo, che l’utilizzo della tecnologia blockchain può sempre essere considerato utile per la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico. Leggiamo ancora nel brief EEA: “Wider use of blockchain technology could counteract climate change mitigation efforts, as electricity remains largely generated from fossil fuels worldwide (IEA, 2019b).”

E non scordiamo che, in contrasto alle stime di Akten, sono state pubblicate anche ricerche dagli esiti completamente opposti: Steling Crisping sostiene sul suo blog che il 70% del network della CryptoArte si basa su energia rinnovabile.

Se la blockchain mette a tacere i mercati collaterali

L’impatto ambientale degli NFT deve, inoltre, essere contestualizzato in uno scenario complesso che ne valuti globalmente tutti gli effetti. Per esempio, il costo ambientale della CryptoArte risulta complessivamente minore rispetto a quello di altri mercati collaterali dell’arte. Esempio calzante viene dalla vendita di magliette con stampa da produzioni allocate in Cina, decisamente insostenibile per l’ambiente e per la tutela dei diritti umani.

Lo stesso ceo di SuperRare, John Crain, ha accusato Akten di sensazionalismo: “Non è giusto dire agli artisti che sono loro a produrre CO2 quando c’è tutto un ecosistema là fuori”. E inoltre, fa notare lo stesso, anche l’esposizione in un museo sperpera energia, fra trasporto delle opere e manutenzione degli edifici. Un problema che potrebbe essere facilmente superato grazie alla transizione alla CryptoArte, considerando che anche i lussuosi portafogli digitali dei collezionisti rimangono sempre open a chiunque voglia visionarli.

Uno dei grandi meriti della tecnologia blockchain, infine, è quello di abilitare le Organizzazioni Autonome Decentralizzate (DAO), che possono portare a nuove forme di accordi di governance in grado di mettere in crisi le dinamiche economiche e di potere esistenti (EPRS, 2017). Uno senario sicuramente interessante per il mercato dell’arte, da sempre nelle mani di ristrette élite.

I vantaggi in ottica TCLA

Veniamo ora ai vantaggi: la blockchain applicata al mondo dell’arte permette una complessiva democratizzazione della fruizione artistica, garantendone il libero accesso ai più. Se correttamente utilizzata, e se la tokenizzazione avviene a monte della creazione di un’opera, può essere utilissima per la difesa del copyright. Restituisce ai beni digitali la scarsità di cui godono quelli materiali, rendendoli così commercializzabili; permette dunque agli artisti di avere ulteriori forme di guadagno, aumentandone così la dignità delle condizioni lavorative in accordo al Goal 8 dell’Agenda 2030. Infatti, se “fino ad oggi il digitale rappresentava il maggiore ostacolo alla tutela del diritto d’autore, grazie all’estrema facilità della riproducibilità di un contenuto, ed il valore era ridotto a informazionecontinua Renato Grottolal’avvento del NFT inverte questo paradigma, aprendo a nuove forme di possesso di un’opera, ad una potenziale democratizzazione della proprietà di un bene”.

Un corretto utilizzo della tecnologia blockchain può, quindi, effettivamente portare nuove condizioni di sostenibilità per tutti gli attori del mercato artistico, così come alla progettazione di reti logistiche interne più sostenibili (Kouhizadeh e Sarkis, 2018). Infine, anche i consumatori potrebbero essere messi nelle condizioni di fare scelte che non ledano direttamente i diritti umani e le condizioni di lavoro di alcuna categoria impegnata nel settore artistico (CE, 2019b).

Il mercato non si regolerà da solo

Non sfuggirà agli occhi dei più come, nonostante ci siano delle potenzialità positive, sia necessario stabilire presto una regolamentazione a livello globale “Per una nuova ecologia della CryptoArte”. Questo il titolo del manifesto pubblicato sulla rivista Flash Art, in cui viene messo in evidenza il problema culturale alla base del nuovo mercato. L’accusa è quella di basarsi su ideali neoliberisti, che non si pongono il problema di una situazione attualmente opaca.

I firmatari del manifesto sostengono che non si possa aspettare che il mercato “si regoli da sé”. La critica deve essere seriamente presa in considerazione, senza che diventi un freno. Il vuoto legislativo momentaneamente presente in materia deve essere risolto, e solo a quel punto la transizione potrà considerarsi sostenibile ed esplicitarsi in tutto il suo impatto positivo.

La necessità di un’arte antifragile

Considerato che la stessa Commissione Europea ritiene che le blockchain sia “trasformativa per i decenni a venire” (CE, 2019a), è necessario cavalcare l’onda piuttosto che farsene travolgere.
Confidiamo che le opacità legislative possano essere risolte velocemente, anche in nome delle iniziative della Commissione a sostegno dello sviluppo, del monitoraggio e della standardizzazione delle tecnologie di blockchain, come quella europea della Blockchain Partnership (EC, 2019b).

Allo stato attuale non c’è ancora sufficiente analisi. La conversione responsabile del mercato dell’arte è però possibile, e avverrà solamente con un monitoraggio e le necessarie valutazioni della sostenibilità a livello globale, europeo e locale.

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