L’impatto delle piattaforme digitali sul mondo del lavoro

Le sfide del lavoro digitale sulle piattaforme sono moltissime, e riguardano il tema della sostenibilità del lavoro: quali implicazioni per il futuro dell'occupazione? Quali opportunità, e quali diritti da considerare?

Immagine distribuita da Pixabay

Le sfide del lavoro digitale sulle piattaforme che ormai possono occupare fino al 22% della popolazione di lavoratori adulti, sono moltissime e invadono il tema della sostenibilità del lavoro. L’impatto di un mercato da 52 miliardi di dollari (dati 2019), continuamente in crescita, viene analizzato dal report dell’International Labour Organization dedicato alle piattaforme digitali, sia quelle web-based, che richiedono lavoro da remoto, sia quelle location-based, che si avvalgono di lavoratori e servizi in loco. Il digitale, il cloud computing, la pervasività di Internet, hanno sviluppato da anni un’economia parallela che va ad integrarsi con l’economia tradizionale fornendo capitale umano e servizi. Ma in che modo? E quali sono le conseguenze su scala globale?

Se, infatti, le piattaforme per via della loro flessibilità hanno contribuito a dare lavoro a categorie che ne avevano accesso limitato come i diversamente abili, le donne con figli a carico, gli immigrati, notiamo disuguaglianze sostanziali relative ai luoghi del mondo in cui sono maggiormente diffuse. Il 70% dei loro ricavi è concentrato negli USA (dove ha sede il 49%) e in Cina (dove ha sede il 23%). Il rapporto ILO si basa su sondaggi e interviste di 12.000 lavoratori in 100 stati, 70 aziende, 16 società di piattaforme e 14 associazioni di lavoratori che operano in più settori e paesi.

Piattaformizzazione del lavoro

Tra le mansioni richieste dalle piattaforme web-based troviamo l’etichettatura ed elaborazione dei dati, traduzione, trascrizione e sviluppo di software, che consentono di lavorare completamente da remoto. Per quanto riguarda invece le piattaforme location-based, le attività più comuni sono i servizi di trasporto (taxi) e consegna prodotti (Glovo, Deliveroo…). La mediazione digitale su questo tipo di mansioni ha costruito un’offerta sempre più corposa, tanto che molta popolazione dei paesi in via di sviluppo conta su questi servizi per il proprio reddito.

La percentuale di lavoratori che si affida ai mestieri richiesti dalle piattaforme digitali per il proprio sostentamento va dallo 0.3% al 22% della popolazione adulta mondiale, con significative differenze a seconda dei paesi

Le implicazioni per il futuro dell’occupazione sono moltissime: dalla gestione del lavoro che viene affidata a sistemi di intelligenza artificiale e monitoraggio continuo e algoritmico, fino all’impatto delle piattaforme sui corrispettivi settori dell’economia tradizionale, data la forte competitività: le piattaforme possono infatti permettersi di offrire servizi senza investire troppe risorse in beni strumentali (ad esempio computer o veicoli) richiesti ai lavoratori, che a loro volta sono anche obbligati a occuparsi dei costi relativi a manutenzione e licenze. La caratteristica più significativa che emerge dal rapporto ILO è la creazione di un mercato duale segmentato. In questo nuovo tipo di economia digitale, infatti, pochissimi lavoratori dipendono effettivamente dalla piattaforma: la maggior parte di essi viene classificata sotto la categoria di lavoratori autonomi pur con diversi vincoli contrattuali e di non concorrenzialità. La percentuale di lavoratori che si affida ai mestieri richiesti dalle piattaforme digitali per il proprio sostentamento va dallo 0.3% al 22% della popolazione adulta mondiale, con significative differenze a seconda dei paesi: uno degli aspetti più comuni delle interviste nel report ILO è che la concentrazione della forza lavoro delle piattaforme risulta prevalente nei paesi in via di sviluppo, mentre i profitti alimentano l’economia dei paesi sviluppati.

I modelli di business delle piattaforme prevedono infatti degli oneri di accesso per farne parte che possono essere a carico del lavoratore o dei ristoranti e delle attività che si avvalgono del servizio mentre la qualità del lavoro – e di conseguenza il destino economico futuro del lavoratore – dipendono dalle recensioni degli utenti, da sistemi di rating, e sono molto spesso condizionati da disattivazioni periodiche degli account per diversi motivi, con la conseguenza di una limitazione sempre più stringente dell’autonomia e della libertà dei lavoratori, aggravata dall’impossibilità di iscrizione a più piattaforme contemporaneamente.

Il rapporto con le imprese tradizionali

Dall’analisi svolta da ILO su 70 imprese che forniscono servizi digitali emerge come il reclutamento di risorse umane sia completamente cambiato sull’economia digitale, sia quella delle multinazionali che delle startup. Grazie a sistemi di data analysis, il “match” competenze – risorse – skills richieste avviene in modo più semplice, permettendo anche alle imprese tradizionali che si avvalgono di questo servizio di risparmiare sul processo di recruitment. Ci troviamo dentro un nuovo ecosistema fatto di microtasks, database di lavoratori con screening dettagliato delle loro caratteristiche e disponibilità, network di talenti, fornitori di servizi: un’intermediazione che può garantire sia ai lavoratori che ai datori di lavoro varietà, flessibilità e la possibilità di approcciarsi a un nuovo modello economico senza costi altissimi da sostenere.

Nel 2019 il 5% delle piattaforme (21 imprese) produceva il 20% dell’utile netto totale dell’economia digitale

A fronte di molti lati positivi, in primis il portato di innovazione continua, dati e know how che le piattaforme digitali possono portare alle imprese tradizionali, si va incontro a una spietata concorrenza e spesso all’abuso di posizioni dominanti, come possono essere quella di Amazon nel settore delle consegne e Uber nel settore dei taxi: nel 2019 il 5% delle piattaforme (21 imprese) produceva il 20% dell’utile netto totale dell’economia digitale. Un assestamento che si verifica anche a livello regionale e nazionale: in India, per esempio, nel 2018 due piattaforme (Amazon e Flipkart) controllavano circa il 63% della quota di mercato retail totale, mentre contemporaneamente nell’UE, le 10.000 startup digitali costituivano solo il 2% del valore totale delle piattaforme con le 7 imprese più grandi (Amazon, Apple, Alphabet che include Google, Microsoft, Alibaba, Facebook e Tencent) che costituivano insieme il 69% del valore.

Causa e conseguenza di ciò, le continue acquisizioni di società più piccole di servizi da parte dei data-poli (le grandi imprese della gig economy che possiedono enormi quantità di dati e possono abusare della loro posizione dominante sul mercato). Una dinamica scoraggiante sia per le imprese tradizionali che per quelle società che mirano a entrare nelle piattaforme digitali per avvalersi di alcuni servizi in outsourcing, e che allerta sempre di più i controllori e gli enti preposti a sorvegliare la corretta concorrenza in questo mercato.

La ridefinizione del lavoro: opportunità, sfide, diritti

Il cambiamento più evidente delle piattaforme digitali è la tendenza ad offuscare il confine tra il lavoratore dipendente e il lavoratore freelance: le modalità di reclutamento della forza lavoro, l’assegnazione delle mansioni, il monitoraggio, la valutazione e la relativa ricompensa avvengono tramite gestione algoritmica, di conseguenza l’autonomia del libero professionista ne viene intaccata.

Ma chi sono i lavoratori delle piattaforme? Il rapporto traccia profili ben definiti: si tratta di uomini di età inferiore ai 35 anni che risiedono in aree urbane o suburbane. Un dato significativo è il grado di istruzione: oltre il 60% dei lavoratori delle piattaforme web-based è altamente istruito ma lo è anche il 20% della forza lavoro delle attività location-based, cioè tassisti e fattorini. La scarsità di lavoro spinge sempre più spesso lavoratori istruiti a svolgere mansioni non specialistiche all’interno delle piattaforme. Per quanto riguarda le donne, in numero maggiore nelle mansioni dei mestieri web-based piuttosto che nei location-based, sono di più nei paesi sviluppati (47% dei lavoratori), meno in quelli in via di sviluppo (24%).

La flessibilità di cui godono i lavoratori rischia di scontrarsi con alcune regole rigide: l’esclusività di lavorare soltanto per una piattaforma con il rischio di minori richieste in certi periodi (ad esempio durante la pandemia) unito all’obbligo di acquistare l’attrezzatura, la divisa, l’occorrente per il lavoro limitano in modo notevole la possibilità di incrementare il proprio reddito.

I guadagni sulle piattaforme web-based sono in media di 4,90 dollari l’ora, il che richiede una gran quantità di ore di lavoro – vista anche la clausola di esclusività che spesso è prevista dalle app – per accumulare un reddito decente.

Per quanto riguarda i diritti, invece, dalle interviste ILO emerge come il 90% dei tassisti e fattorini delle app non disponga di assicurazioni (di invalidità) né di un’indennità di disoccupazione, il 40% non possieda un’assicurazione sanitaria e al 70% non venga garantita adeguata protezione contro gli infortuni sul lavoro e un piano pensionistico. L’assenza di tali diritti provoca periodicamente scioperi e manifestazioni indetti dai lavoratori della gig economy in giro per il mondo.

Con l’avvento della pandemia, la richiesta di attività in grado di facilitare il funzionamento del lavoro da remoto è cresciuta esponenzialmente, arrivando a toccare in alcuni paesi come ad esempio l’India il 50% in più durante il 2020.

Proposte per un lavoro equo nel mondo delle app

Il Covid ha messo in luce mancanze organizzative e ineguatezze dell’economia delle app, evidenziando le mancate protezioni individuali in tempo di pandemia in molte nazioni del mondo.

Per questo ILO nel rapporto 2021 propone alcune linee guida che dovrebbero ridurre la portata delle disuguaglianze che l’economia delle piattaforme porta con sé agendo su diversi paesi con differenti legislazioni sul lavoro, diversa moneta, diverse caratteristiche socioculturali: innanzitutto, emerge la necessità di classificare i lavoratori del digitale in modo conforme ai sistemi di classificazioni nazionali (pur tenendo presente la sempre più stringente necessità di una loro revisione in virtù dei cambiamenti che il lavoro ha vissuto e sta vivendo), con gli obblighi di tutela previsti dalla legislazione vigente; in secondo luogo, si rende necessaria la trasparenza degli algoritmi, sia per i lavoratori che per le imprese che si avvalgono dei servizi delle piattaforme; dovrebbero essere prese in considerazione le associazioni di lavoratori e le loro contrattazioni collettive. E ancora l’adeguamento delle politiche del lavoro ai quadri legali delle nazioni in cui le piattaforme operano, mentre un uso equo dei dati e la possibilità di risolvere le controversie nei tribunali della propria giurisdizione dovrebbero essere garanzie immancabili in tutti i paesi.

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