Il 2009 ha rappresentato un momento importante nella storia dell’urbanizzazione: i dati ONU ci dicono che a quella data la popolazione residente nelle città ha superato quella che vive nelle campagne, con 3,42 miliardi di abitanti nei centri urbani contro 3,21 nelle aree rurali. La città, come ha fatto notare, fra gli altri, Domenico De Masi nel suo recente volume sul lavoro agile (“Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente”, Marsilio Editore, 2020), è divenuta grande protagonista nella storia dello sviluppo umano, crescendo esponenzialmente e modellandosi secondo le esigenze proprie della società industriale e trovandosi, al momento, in una fase di ripensamento nel quadro nella nuova società post-industriale. Proprio un utilizzo maturo del lavoro agile, per il settore pubblico come per quello privato, può contribuire positivamente alla rigenerazione urbana e alla maggiore visibilità delle nostre città, rendendole inclusive, sicure, durature e sostenibili. Vediamo come.
L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 11 dell’Agenda 2030 dell’ONU (Make cities and human settlements inclusive, safe, resilient and sustainable) trova il suo fondamento nelle tante e diverse problematiche che si pongono ai decisori e ai cittadini per mantenere (trasformare?) i centri urbani come luoghi di lavoro e prosperità, senza danneggiare l’ambiente, il territorio e le risorse (naturali, urbanistiche e architettoniche). Le sfide poste dall’ambiente urbano, evidenzia l’Agenda, includono il traffico, la mancanza di fondi per fornire i servizi di base, la scarsità di alloggi adeguati, il degrado delle infrastrutture. Le attuali proiezioni prevedono che entro il 2030 quasi il 60% della popolazione mondiale abiterà in aree urbane e che il 95% dell’espansione urbana nei prossimi decenni avverrà nei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, se le città occupano solamente il 3% della superficie terrestre, sono tuttavia responsabili del 60-80% del consumo energetico e del 75% delle emissioni di carbonio, mentre più di 800 milioni di persone vivono in baraccopoli, con il loro numero in continuo aumento. Il processo di una tale, rapida urbanizzazione, infine, incide sulle forniture di acqua dolce, sulle fognature, sull’ambiente e, in ultima analisi, sulla qualità della vita e sulla salute pubblica.
Il Rapporto dell’ASviS-Alleanza per lo sviluppo sostenibile del 2021, in riferimento alle novità normative e strategiche dell’ultimo anno, sottolinea che il Goal 11 dell’Agenda 2030 è determinante per la buona riuscita del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) ma che, ponendo attenzione all’indicatore composito utilizzato, nel 2020 il valore è simile a quello registrato dieci anni prima nelle varie determinanti: migliorano, ad esempio, i superamenti del valore limite giornaliero previsto per il Pm10 (-45,7 punti percentuali dal 2012 al 2019) e diminuisce la difficoltà di accesso ai servizi (-1,1 punti percentuali dal 2010 al 2019), mentre peggiora l’offerta del trasporto pubblico locale (-7,2 punti percentuali dal 2010 al 2019), accanto all’abusivismo edilizio (+5,4 punti percentuali dal 2010 al 2020) e al sovraffollamento delle abitazioni (+4 punti percentuali dal 2010 al 2019). Al sopraggiungere della pandemia da Covid-19, evidenzia ASviS, aumentano le persone che si recano abitualmente presso il luogo di lavoro con mezzi privati e viene, altresì, rilevato, un peggioramento dell’indice relativo alle Pm10 principalmente a causa, secondo le valutazioni dell’Ispra, della minore piovosità, probabilmente in quanto il lockdown attuato nelle fasi più dure dell’emergenza non ha compensato, almeno nel breve periodo, condizioni metereologiche sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti.
Si esaminino ora alcuni fra i target in cui si articola l’obiettivo di rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili: fornire l’accesso ai sistemi di trasporto sicuri, accessibili, e sostenibili per tutti, migliorare la sicurezza stradale, in particolare ampliando i mezzi pubblici, con particolare attenzione alle esigenze di chi è in situazioni vulnerabili, donne, bambini, persone con disabilità e le persone anziane (11.2); ridurre il negativo impatto ambientale pro capite nelle città, con particolare attenzione alla qualità dell’aria e gestione dei rifiuti urbani e di altro tipo (11.6); supporto ai legami economici, sociali e ambientali tra le zone urbane, periurbane e rurali rafforzando la pianificazione dello sviluppo nazionale e regionale (11.a). Ebbene, in relazione a tali traguardi, lo smart working può certamente agire da volano. L’alleggerimento del volume di persone che quotidianamente si reca al posto di lavoro, percorrendo, come accade spesso nelle grandi città, distanze considerevoli, migliora la fruibilità del sistema di trasporto pubblico e, come si è visto in riferimento al SDG 3, ha effetti positivi sul livello di sicurezza stradale. Allo stesso tempo, possono registrarsi minore impatto ambientale (dovuto al minor numero di veicoli inquinanti in circolazione) e, nel complesso un innalzamento del livello della qualità della vita. Ma è soprattutto in riferimento al rafforzamento dei legami economici, sociali e ambientali che il lavoro agile può funzionare da elemento facilitante.
Sappiamo che non tutti i lavoratori possono accedere a forme di lavoro agile, ma il numero di attività gestibili in remoto o, in ogni caso, non necessariamente fra le mura dell’ufficio, aumenta di giorno in giorno con l’aumentare della terziarizzazione del mondo del lavoro: è il passaggio dalla società industriale caratterizzata dalla produzione di beni ad una società post-industriale che vede un vertiginoso incremento della produzione di servizi. È un processo che, ad oggi, sembra decisamente avviato, pur se comporta, occorre ricordarlo, un forte squilibrio fra i paesi sviluppati e “terziarizzati” e paesi in via di sviluppo che forniscono, principalmente, risorse naturali e manodopera. Ebbene, se la società industriale “si è fondata sulla razionalizzazione, e l’obiettivo del suo management, qual è stato elaborato dalle business school, è stato quello di razionalizzare l’organizzazione, la decisione e la valutazione nelle imprese”, la società post-industriale, caratterizzata dalla prevalenza del bene dell’informazione, valorizza sistemi meno gerarchizzati, più collaborativi e creativi, rompendo con modelli di organizzazione tradizionali e burocratici.
Un simile processo, qui descritto nelle sue forme essenziali e che vive una complessità che testimonia la difficoltà di trovare modelli teorici compiuti che puntellino la trasformazione in corso, impatta violentemente sull’organizzazione del lavoro e dell’equilibrio tra vita privata e professionale degli individui, i quali apprezzano i nuovi spazi di autonomia, responsabilizzazione e gestione del proprio tempo che il massiccio riscorso allo smart working nel periodo pandemico ha comportato. Il ripensamento in corso, tuttavia, non investe solo l’ambiente lavorativo, ma l’intero spettro della vita quotidiana delle persone che, del tutto inaspettatamente, hanno per la prima volta visto traballare pericolosamente l’organizzazione lavorativa basata sul feticcio della scrivania, trovando a propria disposizione spazi nuovi sinora relegati nella tradizionale tripartizione delle 24 ore della giornata. Ecco che, dunque, anche l’agire giorno per giorno è vissuto in maniera diversa, riappropriandosi, ad esempio, della propria “fetta” di città e guadagnando ore preziose prima dedicate al pendolarismo o, comunque, allo spostamento che possono, invece, essere dedicate a vivere con maggior partecipazione il proprio territorio di residenza. Il modello di città che tutti consociamo, basato sulle usuali ripartizioni centro/periferia, tempo libero/residenzialità o commercio/produzione tende a scricchiolare quando viene meno la regola del cartellino che richiede al lavoratore spostamenti quotidiani, orari fissi, divisioni di tempo e spazio ben definite.
Sia chiaro: non è certamente il lavoro agile che ha attivato processi di trasformazione dei tessuti urbani così profondi e di lunga portata, dovuti, come si è visto, a mutamenti di carattere epocale che segnano variazioni radicali nelle coordinate basilari della vita degli esseri umani, pure con fortissime disparità nelle diverse zone del pianeta. Lo smart working, inteso quale abbandono del modello che vede indissolubilmente legati ufficio e segnatempo, al contrario, è la naturale conseguenza di quei movimenti sussultori che stanno investendo le società e che, come ricorda Federico Butera, rappresentano un esperimento organizzativo di portata non inferiore all’avvento del taylor-fordismo. Sono, tuttavia, mutamenti che procedono in modo non lineare, scontrandosi con consolidati modelli organizzativi (e urbani) che sono prodotti diretti dell’era precedente e che non possono essere rivoluzionati nel breve periodo. In questo quadro di enorme stratificazione, modelli di lavoro agile che redistribuiscano ampi spazi di autonomia e gestione fra i lavoratori impattano direttamente su tempi, orari e modalità di condivisione urbana, offrendo possibilità nuove in termini di rapporti sociali ed economici – affettivi, financo – e rappresentano un elemento di accompagnamento alla spinta trasformativa in corso.
Si tratta di una spinta che insiste sugli insediamenti urbani secondo una tripla dimensione: in primo luogo, favorisce una interpretazione nuova dell’articolazione dello spazio cittadino alla luce delle esigenze rese palesi dalla trasformazione del lavoro; dall’altro, si incontra felicemente con le recenti concezioni urbane che possono essere riassunte nella celebre formula coniata da Carlos Moreno della “città dei 15 minuti”, caratterizzata dalla prossimità di servizi facilmente accessibili, dal decentramento, dall’inclusione e dalla accessibilità (un’idea, peraltro, che risale nel tempo); infine, potrebbe avere effetto sulla stessa dimensione delle città contemporanee, che attraversano un processo di rapida ed erratica trasformazione: se cresce il numero delle cosiddette megacittà, soprattutto in Asia e Africa (che ospitano 22 delle 33 città con oltre 10 milioni di abitanti), la progressiva perdita in termini di attrattività della città quale deposito esclusivo di opportunità di lavoro, che può essere svolto, almeno in parte, altrove e in maniera asincrona, potrebbe favorire processi di deurbanizzazione o suburbanizzazione, sebbene i modelli di espansione degli agglomerati urbani nelle diverse aree del pianeta cambino sensibilmente, denotando, tuttavia, quasi sempre, problemi di gestione amministrativa e legata alla garanzia di servizi locali che richiede sforzi notevoli e crescenti alle pubbliche amministrazioni di riferimento.
Non è possibile, in questa sede, dar conto dell’intrecciarsi delle dinamiche che compongono il quadro delle prospettive prossime e future dei centri urbani. È utile, tuttavia, far cenno, in conclusione, del fenomeno italiano del southworking, in base al quale, come evidenzia una recente indagine dello Svimez riportata nel Rapporto sull’economia e la società del Mezzogiorno del 2020, durante i mesi di lavoro a distanza imposto dall’emergenza sanitaria ed epidemiologica, molti giovani che vivono al nord del Paese o all’estero hanno avuto la possibilità di rientrare nelle proprie regioni d’origine nel meridione, spesso anche per periodi prolungati, solitamente in piccoli centri. Interessante notare come, tra gli aspetti positivi del lavorare a distanza, da parte degli intervistati emergano una migliore gestione dell’equilibrio tra vita personale e lavorativa, la cancellazione dei tempi morti degli spostamenti, maggiore flessibilità, minor costo della vita, possibilità di stare più vicini alla famiglia di origine e di passare più tempo con la famiglia, maggiore ecosostenibilità. Per la grande maggioranza degli intervistati, inoltre, quasi tutti gli indicatori di benessere individuati migliorerebbero andando a lavorare al sud a distanza: la propria “felicità” sarebbe migliore o molto migliore, come anche la qualità della vita (75,7%), i rapporti familiari (72,8%), la conciliazione vita/lavoro (72,65%), il potere d’acquisto (72,4%) lo stato di salute (66,8%) e le relazioni sociali (60,8%). Piccolo (e familiare) è bello, potrebbe dirsi.
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