Sostenibilità Digitale: quali sono le domande giuste da porsi?

Due uomini scendono dallo stesso camino: uno ha la faccia sporca e l’altro ce l’ha pulita, chi si lava la faccia?”.

 

La reiterazione di questa domanda di un supponente neofita di studi ebraici a cui il Rabbino fornisce costantemente una risposta diversa è la traccia di una sapida storiella yiddish riportata da Moni Ovadia. Una domanda volutamente ambigua e, nel pratico, priva di senso.

Nel rispondere alla domanda “la tecnologia è un bene o un male?” noi cosiddetti esperti del settore (ma, come noto, la competenza è categoria superata nell’era della post-verità) non esitiamo a imbarcarci in dispute talmudiche ancora più sottili e talvolta con effetti non meno comici.

Non lo ha fatto invece Stefano Epifani nel suo libro “Sostenibilità digitale”, pubblicato di recente come pietra angolare delle attività scientifiche del prolifico (e necessario) Digital Transformation Institute da lui presieduto.

Un assaggio del saggio

Mia moglie, libraia, mi dice che si può spoilerare un saggio. Quindi posso anticipare a chi lo leggerà (e anticipo anche che, sostanzialmente, dovrebbero leggerlo tutti) che la risposta alla domanda è articolata ma estremamente precisa: l’evoluzione tecnologica è stata un bene per l’evoluzione della specie; la sciagurata umanità, con la tecnologia, campa mediamente più a lungo, in condizioni migliori, e può anche cogliere opportunità per stare meglio su un piano “ontologico” laddove riconosca che ogni trasformazione tecnologica è accompagnata da una profonda trasformazione di senso che occorre riconoscere, saper cogliere e orientare in una direzione etica.

Il libro esamina la trasformazione digitale, oggettivamente il salto più rapido, in termini di gradiente altezza su tempo, fatto dall’umanità, in questa ottica ponendolo, in prospettiva, a confronto con altre rivoluzioni tecnologiche nel corso della storia, evidenziando trend comuni di resistenza al cambiamento (monumentale il riferimento alla “red flag”, la bandiera rossa che secondo la legge inglese avrebbe dovuto precedere a piedi gli autoveicoli che percorrevano le strade urbane) e di derive liberiste positivisticamente convinte (in modo tragicamente erroneo) della possibilità per il mercato di regolare se stesso.

In questo contesto, viene collocato per esempio il capitalismo di piattaforma, smontando acutamente alcune concezioni chiaramente erronee sulla disintermediazione e sulle sue “magnifiche sorti e progressive” che dovrebbero portarci a riflettere ogni volta che su “deliveroo” mettiamo mancia zero per il rider. Il tutto non trattato certo in una prospettiva e con un intendimento luddista ma, anzi, evidenziando come la trasformazione digitale possa abilitare un percorso di sostenibilità, forse come mai è accaduto nelle generazioni precedenti.

L’autore ha un altro indiscusso merito: ridefinire, con precisione, il concetto di sostenibilità digitale, despecializzandolo rispetto alle tradizionali declinazioni di settore (che oscillano tra l’agganciarlo alla sola sostenibilità ambientale fino ad arrivare, dall’altro lato del pendolo, a proporre definizioni che propongono, per dir così che “nessun bit venga danneggiato nel realizzare una trasformazione digitale per preservarlo per le generazioni future”), ma collocando le dinamiche della trasformazione digitale nelle dimensioni dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che detta obiettivi per lo sviluppo sostenibile all’intero Pianeta.

Per fare questo, il libro, in modo sintetico, preciso e piano, colloca le dimensioni della trasformazione digitale lungo le direttrici dello sviluppo sostenibile utilizzando come “escamotage” narrativo alcune storie di futuro distopico nelle quali varie persone vivono scenari dai più cupi e “apocalittici”, ai più rosei e “integrati”, con almeno 50 sfumature di futuro affidate alla riflessione del lettore.

Allora, perché tutti dovrebbero leggere questo libro?

I tecnologi e i tecnici per sistematizzare l’aggancio tra trasformazione e sostenibilità, per aderire da subito ai punti del “manifesto per la sostenibilità digitale”, che viene allegato in appendice come chiamata in correo dei volenterosi che vorranno contribuire (io lo farò).

I politici per evitare di strologare su argomenti per i quali il libro offre coraggiosamente un “bignami” o se si preferisce un “ristretto doppio-brodo” scritto in modo elegantemente chiaro e comprensibile (e peraltro mai a-tecnico o impreciso).

Tutti gli altri, a partire dai nostri figli, per accompagnare questa irrefrenabile trasformazione di senso, con gli strumenti che consentano a tutti noi di essere attori di tale trasformazione e non semplicemente utenti, che poi è l’invito dello stesso autore nel sapido capitoletto conclusivo. In sintesi, una pietra miliare su un argomento che tocca inevitabilmente le vite e il futuro di tutti noi.

 

“Senti figliolo, ma come puoi pensare che due uomini scendano dallo stesso camino, e abbiano uno la faccia sporca e l’altro la faccia pulita! L’intera questione è un’idiozia! Passa la tua vita a rispondere a stupide questioni della tua dialettica… e vedrai cosa capirai di ebraismo!”

Moni Ovadia, “L’ebreo che ride”

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