Recentemente un noto signore con un vestito molto stazzonato di lino blu ha attraversato in treno un tratto d’Italia da Roma a Foggia. Pur avendo viaggiato insieme a diversi ragazze/i di 16/17 anni, non ha incontrato nessuno. Nè i ragazzi hanno incontrato lui, che, insalutato, è sceso dal treno senza salutare. Il personaggio letterario che lui stesso ha creato, scrivendo un articolo sulla propria non proprio memorabile vicenda per un noto quotidiano italiano, si è sentito “inesistente”, “una sorta di marziano che veniva da un altro mondo” mentre quei ragazzi che “pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce, si muovevano in continuazione”, insomma a suo avviso dei “lanzichenecchi”, erano la maggioranza ma parlavano solo tra di loro. Anche i giornalisti del giornale sul quale l’articolo è stato pubblicato non hanno parlato con lo scrittore, anzi si sono dissociati dall’articolo, che è stato poi preso di mira da molti account social, i quali si sono schierati con i giovani lanzichenecchi, lanciando tweet e post contro il noto signore con il vestito di lino blu, sempre più stazzonato. Non sono naturalmente mancate le interpretazioni dell’articolo, dei tweet, dei post, nonché le interpretazioni delle interpretazioni, le meta-interpretazioni per così dire, cui pure il mio articolo non sfugge, in un continuo gioco di specchi in cui tutto appare riflettersi ma nessuno sembra dialogare. Se si volesse ricercare un’immagine più esplicita dell’incomunicabilità, tra individui, gruppi e classi sociali, ai tempi della comunicazione mass- e social-mediale, sarebbe difficile trovarla.
Ecco, in situazioni come queste sarebbe di grande aiuto la “mentalizzazione” cioè, come hanno spiegato Peter Fonagy e Antony Bateman, un‘ attività mentale immaginativa che porta a percepire ed interpretare i comportamenti propri ed altrui come il risultato di stati mentali interni ed intenzionali, e cioè di desideri, credenze, aspettative, bisogni obiettivi e sentimenti. Si tratta dunque di comprendere grazie alla teoria della mente (TOM) i propri e gli altrui pensieri, sentimenti ed intenzioni e presupporre che tali stati mentali siano alla base del comportamento non solo nostro ma anche altrui.
“Basterebbe avere un po’ di empatia e mettersi nei panni altrui” – mi si obietterà. In Italia, ma più in generale in tutte quelle culture in cui si è abituati ad una mamma che tutto comprende senza nulla chiedere e a uno Spirito (più o meno Santo) che tutto capisce e agisce senza proferir parola, tutto sembra infatti risolversi con l’empatia, che tuttavia, in casi simili a quello descritto, è proprio quella che manca. Né il noto signore dal vestito stazzonato di lino blu né i presunti lanzichenecchi volevano/sapevano mettersi gli uni nei panni dell’altro. Ecco allora che ci viene incontro la mentalizzazione, la quale parte proprio dal presupposto che gli stati mentali (nostri ed altrui) sono per loro natura opachi e che per cercare di penetrare quest‘opacità bisogna parlare con l‘altro/a, riflettere con lui/lei e, prima ancora, dentro di noi, senza peraltro mai poter avere la certezza assoluta di conoscere lo stato d’animo dell’altro. Tutte belle parole – mi si dirà, ma cosa significa mentalizzazione in concreto?
Proviamo allora a vederlo proprio in concreto e ad immaginarci che il noto signore con il vestito di lino blu, invece di stare ripiegato nella propria sensazione di marziano ponesse qualche domanda ai presunti lanzichenecchi. Consapevole di non sapere cosa loro stessero davvero pensando, né impaurito dai loro pensieri, ma invece, come suggerisce la mentalizzazione, aperto alla scoperta e alla novità, interessato ai pensieri e sentimenti altrui, capace di assumere il punto di vista dell’altro (perspective-taking), e aperto alla possibilità che qualcosa possa apparire sotto una luce diversa se osservata da differenti prospettive e/o in base alla storia personale di ognuno, il signore in blu avrebbe potuto chiedere (interessato) ai ragazzi dove avevano acquistato i loro berretti da baseball o cosa significassero i loro tatuaggi. Oppure avrebbe potuto chiedere loro, in tono gentile o seccato, di abbassare il volume dei loro scambi. Avrebbe potuto far loro (moralisticamente) una discutibile ramanzina sulle loro parolacce, ma avrebbe potuto anche dimostrarsi divertito dalle stesse e citarne altre che lui stesso usava alla loro età. Avrebbe potuto chiedere spiegazioni sul loro modo di flirtare con le ragazze e avrebbe potuto raccontare qualcosa del proprio modo di sedurre. Avrebbe potuto lamentarsi del caldo e del cambiamento climatico, scusarsi con loro per aver lasciato loro un mondo così disastrato o invece chiedere la loro opinione sul cambiamento climatico. In un modo o nell’altro l’uomo dal vestito di lino blu stazzonato che legge diverse quotidiani stranieri, Proust nell’originale francese, e scrive con la stilografica e i presunti lanzichenecchi sarebbero entrati in contatto tra loro magari per mandarsi reciprocamente a quel paese, ma, nel farlo, avrebbero scoperto di avere qualcosa in comune, magari molto poco, e che quello che non hanno in comune poteva essere interessante da scoprire. Se il noto signore con il vestito stazzonato avesse assunto almeno alcuni degli atteggiamenti auspicati dalla mentalizzazione, fatto alcune delle domande esemplificate, è probabile, o almeno possibile, che il suo articolo avrebbe raccontato di un incontro o almeno di un confronto. Certo perché ciò accadesse tanto lui quanto i ragazzi avrebbero dovuto riconoscere che la mente di ognuno di noi non funziona sempre razionalmente e consapevolmente, che le opinioni sugli altri si possono modificare in relazione ai nostri stessi cambiamenti, che non possiamo mai essere sempre consapevoli di tutto ciò che proviamo, soprattutto se ci troviamo in un conflitto, che ognuno di noi ha sentimenti e pensieri contrastanti e contraddittori e che conviene pertanto essere indulgenti tanto con sé stessi che con gli altri. Non possiamo infatti mai sapere con assoluta certezza cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, il cuore umano è un guazzabuglio, la realtà è complessa e conviene riconoscere fin da subito le proprie debolezze, prima che siano gli altri a indicarcele con minore tolleranza.
Ma lasciamo il signore dall’abito di lino blu alle sue stazzonature e torniamo a Fonagy e Batemann. I loro studi hanno dimostrato che la salute mentale si basa sulla capacità di sviluppare una narrazione e sulla capacità di ricomporla alla luce di nuove esperienze. A sua volta la creazione di una narrativa deriva dalla capacità di mentalizzare, che si sviluppa nel rapporto tra madre e bambino ed è influenzata dalla qualità delle esperienze relazionali, dai tipi di attaccamento, dallo scambio affettivo con le prime persone di riferimento. Si è potuto dimostrare che i principali disturbi di personalità ma anche disturbi affettivi e comportamentali quali quelli alimentari, di dipendenza da sostanze, dal gioco e altro sono associati a gravi disturbi della capacità di mentalizzare
La capacità di mentalizzazione può essere però stimolata, migliorata e portata ad una sostanziale normalità grazie a interventi terapeutici che ci consentono di superare le modalità tipicamente infantili, ma sempre presenti in noi, dette appunto di pre-mentalizzazione per approdare a un miglior equilibrio tra pensieri e affetti, tra attenzione rivolta a sé e agli altri, tra interiorità ed esteriorità, tra mentalizzazione automatica e volontaria.
La mentalizzazione non esclude naturalmente l’empatia ma la integra. Se l’empatia è sostanzialmente spontanea e inconscia, la mentalizzazione è un processo volontario e consapevole che ha lo scopo di migliorare non solo lo stato psichico ma anche le nostre relazioni.
Riassumendo, possiamo dire che abbiamo a disposizione diversi sistemi per comprendere cosa succede dentro di noi e dentro gli altri e valutare dunque il significato del comportamento nostro e altrui. Tali sistemi si muovono in un continuum che va dalle emozioni più fisiche ai pensieri più astratti, dall‘affettività alla cognizione che ne rappresentano i due poli. L’integrazione della polarità cognitiva e affettiva si potrebbe tradurre nell‘espressione “sentire ciò che si comprende” (Dabbané) che è poi il fulcro della mentalizzazione. Nei momenti infatti in cui la comprensione incontra l’emozione, il soggetto va incontro ad un’esperienza che generalmente comporta un’improvvisa apertura di campo, un nuovo modo di vedere e sentire le cose. Platone parlava di una scintilla, Balint di un flash, Fonagy e Batemann di mentalizzazione. L’importante è entrare in contatto, con noi stessi/e e con gli altri/le altre.
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