Troppa trasparenza? Nessuna trasparenza!

Come dice il proverbio? Il troppo stroppia. Soprattutto se alla quantità non segue la qualità. Quello della trasparenza è un ottimo esempio. Ci sono 60 governi che aderiscono ufficialmente alla Open Government Partnership, una sorta di alleanza pro trasparenza e dati aperti. A loro si aggiunge una manciata di organizzazioni internazionali. La Banca mondiale per esempio. Tutti assieme si impegnano a essere sempre più attivi sul fronte della trasparenza, rilasciando quanti più set di dati possibile e abbassando progressivamente l’asticella dell’accessibilità agli stessi. Sono bravi, e vogliono anche essere belli. Di solito gli impegni li prendono in giro per il mondo, nel corso di mega eventi all stars, quelli dove se non twitti non sei nessuno, dove tutti vanno a dire qualcosa di sensato, ma più spesso per farsi vedere, e poi tornano a casa con una manciata di presentazioni powerpoint, qualche contatto in più, e le foto con i guru del momento.

Open DataCon il fumo, evidentemente, siamo a posto. L’arrosto, però, manca. E si vede. Tra i paladini delle iniziative open una buona percentuale rende accessibili solamente alcune informazioni selezionate, celando alla vista tutte le altre. Il caso statunitense è emblematico. Dopo aver legiferato sul tema dei dati aperti e preso ufficialmente posizione, il governo ha inasprito sensibilmente la disciplina sulla segretezza delle informazioni. È vero che Data.set mette a disposizione oltre 90mila raccolte di dati. Ma, paradossalmente, oggi è più difficile accedere a informazioni sensibili rispetto a quanto non lo fosse fino a pochi anni fa. Il messaggio è chiaro: finché stai nel rassicurante recinto del governo aperto, stai bene. Ma guai a te se osi muoverti.

In Africa 28 governi hanno avviato iniziative di trasparenza sulla formazione del bilancio. Bene. Il 63% però omette di chiarire come vengono spesi i soldi che sono stati stanziati. Il che rende l’intera operazione del tutto inutile. Il caso del Kenya è il più eclatante. Da una parte il governo che apre alla trasparenza con un portale nuovo di zecca. Dall’altra un tasso spaventoso di violazione della libertà di stampa, con decine di giornalisti minacciati, espulsi o arrestati. Che me ne faccio dell’opengov se chi dovrebbe fruirne, i giornalisti, non ha la libertà di esprimersi?

 In Giappone e Turchia, ma anche in Italia, le iniziative di open government sono fruite da un numero ristretto di utenti. Quello della dittatura degli attivi è un problema noto tra chi si occupa di esperimenti di democrazia partecipativa. Avrai sempre il cittadino iperattivo che, praticamente solo, monopolizza la discussione. Ma quando ti rendi conto che le tue iniziative sono sistematicamente recepite, fruite, discusse ed elaborate da un numero di persone che non è nemmeno lontanamente rappresentativo rispetto alla collettività, allora hai un problema con il concetto di “openess”. Dall’analisi dei partecipanti alle consultazioni online fatte dal governo italiano in carica è emerso che 84% di loro era uomo, con una probabilità di essere in possesso di un dottorato di ricerca 3500 volte superiore rispetto all’italiano medio. Un dato diffuso in (quasi) concomitanza con quello di Eurobarometro, che dà agli italiani lo scettro dell’ignoranza europea. Se 69 europei su 100 dichiarano di non interessarsi a nessuna attività culturale, noi italiani li surclassiamo: addirittura 80 su 100 sono a digiuno di cultura. Compresa, ovviamente quella di internet, della trasparenza e del dato aperto.

Una soluzione non c’è. Il problema è molto più vasto e grave di quanto possa sembrare. E allora forse hanno ragione proprio loro, i globe trotters dei convegni, che sostengono di andare in giro per il mondo a parlare di trasparenza affinché alla quantità segua la qualità. Sarà così, avranno ragione loro. Nel frattempo, osservandoli, non posso fare a meno di chiedermi: ma tutti questi viaggi chi ve li paga?

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