Intelligenza artificiale o emozionale? Un cammino insieme per saper vivere il nostro tempo

L'intelligenza artificiale, che prima ritenevamo appannaggio solo degli addetti ai lavori, negli ultimi anni è entrata sempre più nelle nostre case, negli ambienti di lavoro, in quelli sociali e nelle nostre relazioni

Immagine distribuita con licenza CCO

L’intelligenza artificiale, che prima ritenevamo appannaggio solo degli addetti ai lavori, negli ultimi anni è entrata sempre più nelle nostre case, negli ambienti di lavoro, in quelli sociali e nelle nostre relazioni. Che sia un’evoluzione inevitabile e allo stesso tempo importante è innegabile, basta solo pensare ai progressi che l’AI ha portato in campo medico, dell’automotive, tecnologico in genere, ma, come in tutte le innovazioni, c’è il rovescio della medaglia ed è quello di capire se l’intelligenza artificiale e quella emotiva possono viaggiare insieme.

Il filosofo Noam Chomsky, nell’articolo “The False Promise of ChatGPT” pubblicato sul New York Times insieme a Ian Roberts e Jeffrey Watumull, ha messo in luce aspetti contrastanti dell’intelligenza artificiale, soprattutto in merito a ChatGPT di OpenAI. Sottolinea infatti come, nonostante l’entusiasmo iniziale, questi sistemi artificiali si basano su presupposti errati su come funzionano il linguaggio e la conoscenza negli esseri umani, sulle differenze fondamentali tra la mente umana e i sistemi basati sul machine learning.

Secondo Chomsky, la mente umana “non si ingozza di terabyte”, non è un “motore statistico ingombrante”. Costituisce invece un “sistema sorprendentemente efficiente e persino elegante” che si accontenta di “piccole quantità di informazioni”. E ancora, la mente umana “non cerca di dedurre correlazioni brutali tra i dati, ma di creare spiegazioni”, ma è un “sistema operativo innato, geneticamente installato [con] la capacità di generare frasi complesse e lunghi ragionamenti”. La fallibilità dell’essere umano, dice sempre Chomsky, significa “pensare. Per essere giusti dobbiamo sbagliare”. Le IA, spiega ancora Chomsky, “sono meraviglie dell’apprendimento automatico perché prendono enormi quantità di dati, ne cercano gli schemi e [generano] risultati statisticamente probabili”.

Anche Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind e una delle 500 persone più influenti al mondo nel campo dell’IA secondo la rivista Time, ritiene che nel prossimo futuro bisognerà muoversi nel campo dell’AI con una certa cautela.

“Oggi quello che riescono a fare gli smartphone è incredibile, con Gemini (l’IA più avanzata di Google, ndr) li abbiamo resi ancora più intelligenti ma tra cinque anni non so se lo smartphone sarà ancora il formato migliore per l’intelligenza artificiale”.

“Il fatto è che se chiedi all’IA di creare una persona che passeggia con un cane, oppure una infermiera in un ospedale, dovrebbe darti una rappresentazione universale di tutto questo, specialmente se si tiene conto del fatto che Google serve più di duecento paesi nel mondo, e che l’IA non sa da dove viene un utente oppure qual’è il suo background culturale” ha spiegato Hassabis. “Ma una caratteristica voluta dell’IA, vale a dire la sua capacità di restituire un ampio spettro di possibilità [anche in termini di colori della pelle, ndr], in questo caso non ha funzionato nel modo in cui volevamo” ha aggiunto il Ceo di Google DeepMind e continua “(…)Perché sappiamo che molte persone, ma anche molte aziende, vogliono sviluppare e controllare direttamente ciò che fanno con l’IA. Ma ogni volta il tema dell’uso dannoso ritorna, e io dico che questo oggi non è un vero problema perché stiamo parlando di una tecnologia giovane. Ma tra tra pochi anni, tre o quattro, quando queste IA diventeranno più potenti e saranno in grado di pianificare e compiere azioni nel mondo reale, l’intera società dovrà preoccuparsi seriamente”.

Luci e ombre, dunque, e la paura che un algoritmo ci seppellirà resta, come riporta anche uno studio italiano eseguito da IPSOS e commissionato da Kelly, società internazionale di head hunting: il 53% degli intervistati si è detto preoccupato che l’IA possa influire negativamente sulla retribuzione e il 68% del campione ritiene che l’IA ridurrà il personale nelle aziende. Gli italiani hanno paura anche dell’intelligenza artificiale e di un progresso troppo veloce che non rispetta i tempi di assimilazione psicologica e sociale.

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Roberto Panzarani è docente di Innovation Management. Studioso delle problematiche relative al capitale intellettuale in contesti ad elevata innovazione e autore di svariate pubblicazioni. Da molti anni opera nella formazione in Italia. Esperto di Business Innovation, attualmente si occupa dello sviluppo di programmi di innovazione manageriale per il top management delle principali aziende e istituzioni italiane e internazionali. Viaggia continuamente per il mondo, accompagnando le aziende italiane nei principali luoghi dell’innovazione dalla Silicon alla Bangalore Valley, all’Electronic City di Tel Aviv, ai paesi emergenti del Bric e del Civets. L’intento è quello di facilitare cambiamenti interni alle aziende stesse e di creare per loro occasioni di Business nel “nuovo mondo”. L’ultimo suo libro è “Viaggio nell'innovazione. Dentro gli ecosistemi del cambiamento globale”, Guerini e Associati, 2019.

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