Le mille illusioni e frustrazioni dell’Agenda Digitale Italiana

Questo è un articolo “negativo”.

Al contrario dei precedenti interventi che ho proposto su La bella terra, in questo caso mi soffermerò sulla parte “destruens”, sperando che “i miei venticinque lettori” mi perdonino e vogliano tenere conto di quanto ho proposto in precedenza a proposito della parte “construens”. E, soprattutto, spero si rendano conto che qualche volta è necessario e indispensabile cercare di liberare “il tavolo” da tanti discorsi distorti, fuorvianti, approssimativi, parcellizzati e sterili che sviano e indeboliscono il percorso di rinnovamento e innovazione del nostro Paese. Non li tratterò tutti sia perché ne ho parlato in altri articoli, sia per non annoiare i lettori oltremodo. Ne ho scelti alcuni che credo possano essere ragionevolmente emblematici e rappresentativi del problema.

Disclaimer: con Agenda Digitale Italiana intendo in senso generale la discussione che nel Paese avviene su questi temi e non faccio riferimento a specifici documenti o strutture istituzionali.

“È sufficiente rendere tutto open”

openaccess1Provocatoriamente mi pare di poter dire che viviamo l’epoca della “ciucca dell’open tutto”: open source, open data, open government (pochi peraltro citano “l’open” che secondo me è più importante e cioè open standard). Indubbiamente, sono concetti e principi molto utili che concretamente contribuiscono allo sviluppo del digitale e della società nel suo complesso. Ma come spesso accade nel nostro paese, sono vissuti spesso in modoideologico, assoluto e (paradossalmente) superficiale. Detto in altri termini, li si riduce ad essere un fine e non un mezzo.

Per esempio, certamente ci sono tanti ottimi prodotti open source (che io stesso uso). Ma il problema vero delle amministrazioni italiane è la scarsa capacità progettuale e un processo di procurement immaturo e inefficiente. Dire “rendiamo tutto open source” (magari obbligando le amministrazioni per legge!) non scalfisce minimamente questi problemi di fondo e serve solo a creare l’ennesima illusione.

Allo stesso modo, veniamo tutti i giorni sommersi da infiniti proclami sul bisogno di promuovere gli open data. È indubbio che rendere disponibili dati pubblici secondo formati e processi aperti sia utile e doveroso. Ma è illusorio e controproducente affermare che questo possa servire ad abilitare nuovi servizi digitali che siano una reale discontinuità rispetto al passato. Il rischio è che ci si dimentichi del vero problema che abbiamo: promuovere una completa e flessibile interoperabilità diffusa, per la quale serve una strategia complessiva che deve andare oltre gli open data.

Infine, rendere tutto “open data” (e quindi “controllabile” a posteriori) non elimina il bisogno di definire in modo chiaro e deciso le responsabilità, l’autonomia e i meccanismi di accountability per i dirigenti pubblici del Paese.

“Bisogna risparmiare e tagliare i costi … anzi no”

È un tema che troppo spesso viene vissuto in due modi opposti ed entrambi sbagliati:

  • C’è chi vuol tagliare “sempre e a prescindere”, senza rendersi conto che i prodotti e servizi digitali in larga misura non sono commodity e quindi non si possono comprare “al massimo ribasso”. Altrimenti si corre il rischio, come spesso accade che 1) le soluzioni non siano efficaci e quindi utilizzate, 2) i costi di realizzazione e soprattutto di gestione esplodano e 3) i tempi conseguentemente si allunghino a dismisura.
  • C’è chi non vuole tagliare perché ci deve essere “spesa pubblica” per sostenere il mercato. Ma non è buttando soldi in spese inutili che si ottiene alcunché di utile, anzi!

Serve un procurement strategico illuminato e organico, che consideri queste spese come “investimenti”, non “costi”. E, ancora una volta, non bastano scorciatoie in una o nell’altra direzione.

“Il problema non è tecnico”

Un tema sul quale ci appassioniamo da tempo è quello relativo alle competenze: servono o no i tecnici? i problemi sono o no tecnologici? Non sono forse innanzi tutto “culturali”?

Incredibilmente, dopo tanto tempo ancora non abbiamo capito, come scrivevo qualche settimana fa, che benché la conoscenza della materia non sia certo condizione sufficiente, è certamente e assolutamente necessaria. Provo a usare una metafora.

Per vendere bene un’auto, servono processi di marketing e di vendita efficaci. Altrimenti è difficile “piazzare” l’auto sui mercati. Ma se un costruttore, invece di fare macchine con la tecnica, il design e la qualità di un Audi o di una Ferrari, costruisce delle Trabant, c’è poco da evocare capacità di vendita e comunicazione. Certamente, è inutile cercare di rifilare una mietitrebbia (magari tecnologicamente perfetta) ad un pescatore. Ma analizzare bisogni e domanda è il primo passaggio di ogni buon progettista e costruttore(non solo di auto).

Bisogna innanzi tutto saper costruire buone macchine  che rispondano efficacemente alla domanda, essendo in grado di coniugare eccellenza tecnica e design.

Nel nostro caso, l’ignoranza o la scarsa conoscenza delle tematiche tecniche ha portato alla costruzione di tante “Trabant digitali”. A poco serve poi organizzare decine di convegni per “vendere auto” che non vanno o che gli utenti non sono interessati a comprare. Peggio, è deleterio costruire “auto inutili” che sono di interesse solo per chi le costruisce (vedi i 40 centri di elaborazione dati che si volevano costruire per le amministrazioni pubbliche).

Abbiamo bisogno di progettare e costruire belle macchine che gli utenti vogliano e possano comprare e guidare perché utili e usabili. E perché ciò avvenga serve coinvolgere chi le sappia fare, o no? Ricordate Ghidella?

“È vitale accentrare … anzi no”

cloud8Ho discusso di questo tema nel precedente articolo. Risottolineo il concetto perché ogni giorno leggiamo affermazioni approssimative o, peggio, semplicemente guidate dagli interessi di questa o quella sponda. Le moderne scienze organizzative e delle tecnologie informatiche hanno ormai illustrato che su questo tema (processi e strutture informative più o meno decentrate) ci sono una molteplicità di opzioni che devono essere selezionate, configurate e messe in campo tenendo conto delle evoluzioni tecnologiche (per esempio, il cloud), degli obiettivi che si vogliono raggiungere e dei vincoli al contorno. Purtroppo, troppo spesso la discussione non è guidata da una oculata e convincente valutazione di questi aspetti, ma da antichi interessi e conflitti tra centro e periferia.

O troviamo il modo di affrontare queste tematiche in modo serio, pensando realmente al “bene pubblico”, oppure continueremo da un lato a perdere tempo in discussioni sterili e “di parte” e, dall’altro, a ritardare sempre più lo sviluppo di applicazioni e servizi che al di là di dove siano localizzati offrano un contributo utile e visibile ai cittadini e alla società civile in generale.

“Bisogna porsi delle priorità … le mie”

È francamente “divertente” rileggere a distanza di tempo interventi, prese di posizione, “illuminati” articoli che si dilungano su alcuni “principi forti”:

  • “Dobbiamo scegliere poche priorità”, salvo poi dire che tutto è prioritario.
  • “Queste non sono le priorità giuste”, salvo poi cambiare idea quando magari quelle azioni passano sotto il proprio controllo.

La verità è che troppo spesso “le priorità” non sono quelle del Paese, ma le proprie. Per questo le polemiche sulla “scelta di poche priorità” sono per certi versi ineludibili. Esse possono essere contrastate solo offrendo 1) undisegno chiaro che giustifichi il perché di certe scelte e 2) una execution serrata che dimostri la loro efficacia e lungimiranza.

Il valore perduto della execution e dell’accountability

A volte capita di leggere articoli dove si denunciano errori e scelte sbagliate fatte da questa o quella amministrazione pubblica. Certamente è utile riflettere su ciò che non ha funzionato. Ma la cosa che lascia a volte basiti è il dover notare che chi denuncia questi errori sono proprio le persone che erano responsabili delle strutture interessate e che ne parlano come se ne fossero state del tutto estranee! Forse questo paese ha bisogno di meno dichiarazioni di principio e di intenzione, e di un maggiore capacità di execution, responsabilità e accountability.

“La colpa è di chi sviluppa e vende prodotti ICT carenti”

La qualità del procurement di beni e servizi (come quelli digitali ma non solo) dipende certamente dalla qualità dei due attori coinvolti: la domanda e l’offerta. Ciascuno di questi due fronti ha le proprie responsabilità:

  • L’offerta deve proporre soluzioni serie, robuste, adatte a soddisfare i requisiti e i bisogni della domanda.
  • La domanda deve saper comprare, cioè 1) rilevare ed esprimere i propri bisogni, 2) gestire il processo di procurement.

Indubbiamente, nel nostro paese l’offerta ha spesso mostrato limiti e debolezze. Viene da chiedersi chi abbia mai realizzato certi prodotti e servizi utilizzati nelle amministrazioni pubbliche. Ma alla fin fine, chi tiene i cordoni della borsa? Chi formula la richiesta? Chi scrive i capitolati di gara? Chi sigla i verbali di collaudo e accettazione? La domanda ha una grandissima responsabilità dalla quale non si può sottrarre.

SPID

Il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) vive una strana storia, forse perché alla fin fine è una dei pochi progetti concreti che sono stati messi in campo negli anni scorsi.

  • Per taluni è la panacea di tutti i mali. Sembra che con SPID i cittadini avranno nuovi servizi evolutissimi e le imprese occasioni di business fantastiche. In realtà, va detto che SPID è un sistema per l’accesso ai servizi in rete attraverso la circolarità delle identità digitali offerte sul mercato. Senza servizi e senza identità digitali, SPID non serve a niente. È come avere il roaming senza poter disporre né di cellulari né di operatori mobili. È un bellissimo dolce di un menù dove però sarebbe necessario prevedere innanzi tutto antipasto, primo e secondo. Per cui, va benissimo discutere di SPID, ma dando a SPID il giusto peso.
  • Per altri, SPID è l’ombra dei servizi segreti che vogliono controllare le nostre attività in rete. È una affermazione che si scontra con gli stessi argomenti che citavo in precedenza (è uno strumento di circolarità, non una identità). Per di più, preferiamo forse che a gestire le nostre identità in rete siano solo Google, Facebook o Twitter secondo le loro regole?
  • Per altri è del tutto inutile. È una affermazione anch’essa falsa perché in un quadro complessivo di servizi applicativi e infrastrutturali, SPID ha un ruolo importante da giocare.

I “nativi digitali”

piccoli-nativi-digitaliLa retorica dei nativi digitali ha ormai superato il livello di guardia. Per due motivi diversi:

  1. In primo luogo, è ormai evidente che, grazie in particolare (ma non solo!) alle moderne applicazioni multitouch e alla penetrazione dei tablet, ci sono tantissime persone di età avanzata che usano servizi digitali di varia natura senza difficoltà e anzi in modo a volte sorprendente.
  2. In secondo luogo, si confonde la manualità nell’utilizzo di dispositivi fisici e di applicazioni, con una reale conoscenza del “mezzo digitale”. Da questo punto di vista, molti dei cosiddetti “nativi digitali” sono più “ignoranti” e digitalmente “illetterati” di tante persone più anziane e meno “smanettone”.

“Basta applicare le regole del privato”

Di fronte alle inefficienze del pubblico, molti auspicano l’utilizzo di approcci e professionalità del mondo privato. Indubbiamente, il privato può insegnare molto. Ma non si possono ignorare due fatti chiave:

  1. Nel pubblico esistono leggi e norme che non possono e non devono essere violate (per esempio, il codice degli appalti). Certamente, alcune di esse devono essere ammodernate (come il CAD e lo stesso codice degli appalti), ma non è possibile immaginare che nel pubblico si possa operare con i principi e il “decisionismo” del privato, ignorando il quadro giuridico-istituzionale.
  2. La missione del pubblico è di sistema e a servizio dei cittadini. Quella del privato no. Per cui è essenziale tenere sempre a mente che i criteri guida del pubblico, ancorché in alcuni casi integrabili, sono radicalmente e profondamente diversi da quelli del privato.
Mi fermo qui per non annoiare oltremodo il lettore e propongo due riflessioni di sintesi.

Prima riflessione: non si può continuare a vedere le cose da un punto di vista unilaterale

Come dice un proverbio anglosassone: Per un martello, il mondo è fatto solo di chiodi. È venuto invece il momento di avere il coraggio, l’intelligenza e la lungimiranza di aprire lo sguardo al di là del proprio “terreno di gioco” e affrontare i problemi a 360°.

Seconda riflessione: bisogna avviare politiche convergenti e incrementali
Non esistono “silver bullet” o “holy grail”. Scorciatoie non ce ne sono. Non bastano interventi unilaterali o estemporanei. Chi afferma il contrario non fa che diffondere illusioni e coltivare frustrazioni. Servono vision, pazienza, pragmatismo, perseveranza, commitment, governance, competenze. In particolare, serve la capacità di mettere in campo politiche e azioni lungimiranti, convergenti e sinergiche, in grado certamente di ottenere “quick wins”, ma senza l’ambizione di risolvere tutto in modo semplicistico e affrettato.

Altrimenti le mille illusioni non faranno che “crescere e moltiplicarsi” … tristemente.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here