Creazione, Condivisione, Curation: la nuova filiera della costruzione del senso

Questa foto, oltre ad essere indubbiamente poco attraente, è anche apparentemente priva di senso. Mostra un cartello stilizzato affisso sulle porte della metropolitana di Torino, in cui un orsetto stilizzato ammonisce i passeggeri del pericolo che le loro mani possano rimanere incastrate nelle porte automatiche dei treni.

Nei confronti di chi prende la metropolitana nel capoluogo piemontese, questa immagine suscita reazioni molto diverse. Per i torinesi è praticamente trasparente, loro ci sono abituati. Gli avventori casuali, e anche i turisti, sono incuriositi della scelta dell’orsetto come testimonial. I parigini notano una somiglianza con un cartello della loro ferrovia regionale RER che ha finalità identiche, ma dove il protagonista è un coniglietto.

Adesso proviamo a chiederci che succede se una persona è incuriosita dall’orsetto stilizzato, gli scatta una foto e la condivide sul “wall” del proprio social network, frequentato da centinaia di amici o semplici conoscenti. Ebbene, succedono cose nuove e sorprendenti. Cose che ogni giorno di più sembrano prendere in contropiede i meccanismi classici dell’industria dei media.

 Facciamo un passo indietro. Per decenni, quando qualcuno aveva il potere di “pubblicare” un contenuto (perchè deteneva la piattaforma di pubblicazione in via esclusiva, cioè i giornali, la radio, la tv) lo faceva con l’intenzione di raggiungere un numero indistinto di persone. Non a caso si parlava di “mezzi di comunicazione di massa”. E fra i tanti vincoli di questa filiera c’era anche quello di associare a quel contenuto un “significato” univoco, rivolto genericamente a tutti. Il senso, invece (inteso come significato contestualizzato) era tendenzialmente fungibile, in quanto ignoto, e come tale non incideva sulla creazione del contenuto. Infatti, a ciascun destinatario quel contenuto suscitava un’emozione diversa, e a quella foto, a quella canzone, a quel video poteva anche associare un senso diverso. Il punto è che chi lo “trasmetteva” non poteva avere la minima idea di questi “scostamenti emotivi”. Si trattava, in sostanza, di un fenomeno balistico: partiva il missile, non si poteva sapere con precisione assoluta dove sarebbe atterrato, l’unica certezza è che sarebbe atterrato su un’area densamente popolata dal nostro target, di cui al massimo si conoscevano alcune caratteristiche sociodemografiche. E in base a quelle si costruivano i contenuti e i relativi modelli di business.

 Sugli odierni social media – lo sappiamo – raramente si condividono veri e propri “storytelling”, come interi film o trasmissioni televisive in cui la sequenza di emozioni è legata all’evoluzione del racconto. Piuttosto, si condividono immagini, o al massimo brevi sequenze o singoli brani musicali. Quando per esempio pubblichiamo una foto, siamo perfettamente coscienti del senso particolare che quella immagine potrebbe assumere per alcuni utenti. E non a caso, spesso, li “tagghiamo” nella foto stessa, per avere la certezza di suscitare una loro reazione, meglio ancora se pubblica.

 Per tornare all’esempio iniziale, la foto dell’orsetto potrei pubblicarla su facebook, ovviamente “taggando” tre amici torinesi (Maurizio, Enza ed Enrico), sapendo che potrei così in qualche modo solleticare la loro “piemontesità”, e magari narcisisticamente “vendendo” la mia presunta maggiore sensibilità sul tema dei mezzi pubblici, chiedendo in cambio la loro complicità contestuale. Avrei quindi una ragionevole possibilità di azzeccare che tipo di emozione potrei suscitare, anche perchè loro stessi potrebbero associare quella foto alla mia persona, con tutti i significati “pubblici” che questa persona si porta dietro sugli stessi social network (nel mio caso il pendolarismo, i non luoghi, le culture urbane, ecc.)

Inoltre, dato che l’interazione sarebbe pubblica anche con altre persone che conoscono “il mio immaginario”, potrei forse intercettare qualche commento sagace di persone con cui ho condiviso episodi pertinenti. Dopo i probabili commenti “complici” di Enza, Maurizio ed Enrico potrebbero arrivare più o meno casualmente i commenti di Angelo, che ho incontrato nella metropolitana di Roma qualche giorno prima, e di Patrizia, che lavora in uno studio grafico per una Azienda di Trasporti.

La conoscenza personale delle persone con cui condividiamo i contenuti ci permette dunque di continuare a costruire “senso” e di inventarne di nuovo, liberi dalla prigione autosaturante della “confezione aggregatrice del senso fungibile” con cui i broadcast media tendono ancora ad irregimentare le nostre reazioni rispetto al contenuto. In una parola, potremmo dire che grazie alla Rete stiamo iniziando ad “ispirarci” a vicenda, potendo contare, nella conoscenza del vissuto dei nostri interlocutori, su un asset non duplicabile rispetto a giornali, radio e televisione.

Naturalmente anche i nuovi meccanismi di costruzione del senso possono essere industrializzati. Lo sanno bene i maestri della content curation, il fenomeno che vede gli aggregatori di contenuti altrui diventare più popolari degli stessi creatori, proprio come accadeva con i Djs degli anni ’80, che erano anch’essi in grado di cogliere perfettamente, in tempo reale, lo spirito e lo stato d’animo dei loro interlocutori, cioè la gente che balla in pista.

 L’esempio più lampante di questo trend ancora acerbo sono quei pochi utenti che riescono ad avere migliaia di follower su social networks di pura ricondivisione come Tumblr. E ci riescono proprio per la loro capacità di aggregare e ricondividere contenuti come se fossero emozioni allo stato grezzo, col giusto grado di indeterminatezza, quello che consente a tutti gli altri di “ribloggarla” magari per un motivo individualmente diverso.

Forse, dopo anni in cui qualcuno decideva a tavolino quale “immaginario collettivo” poteva essere imposto alle masse attraverso i pesanti investimenti della comunicazione top-down, grazie alla Rete stiamo tornando a una più libera costruzione di “immaginari individuali”. E a chi si chiede ancora se questo nuovo ecosistema di contenuti sia economicamente sostenibile, rispondo ancora una volta con la celebre provocazione dell’amico Marco Traferri: “Perchè non fai la stessa domanda al milione di persone che ogni anno si piazzano ai nastri di partenza della Maratona di New York?. Per loro pagarsi il biglietto aereo, svegliarsi alle 4 del mattino e provare a correre per 42 chilometri nello smog è perfettamente sostenibile”.

Facebook Comments

Previous articleFacebook: IPO sempre più vicina
Next articleTwitter si censura e la Rete protesta
Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

4 COMMENTS

  1. Interessante, Antonio. Ma vorrei sapere cosa ne pensi del rischio prospettato da interpreti come Jaron Lanier (non sospettabili di intenzioni sabotatorie verso il web…), che mettono in guardia dalla trasformazione della nostra cultura in una serie infinita di mash-up, in fin dei conti non così innovativi.
    Se tutti continuiamo a condividere e ricondividere contenuti preesistenti, chi si incaricherà di crearne di nuovi? E’ un problema che mi assilla da un po’…
    Paola

  2. ciao paola, la risposta merita due livelli. partiamo da quello più superficiale. anch’io, appena “fotografato” questo trend, ho pensato che avevamo forse sopravvalutato l’esplosione degli User Generated Content, intesi come contenuti originali. Ma ricordiamo anche che nella la prima ondata degli UGC aveva comunque una caratteristica “selezione naturale”. il 90% del pubblico che fruiva UGC vedeva gli UGC professionali o trendsetting (come Rocketboom, per intenderci). Ora che la cultura del mash-up prima e della curation poi è maturata, in termini di “ripartizione dell’audience”, se mi perdoni il termine un po’ desueto, non è cambiato molto. Inoltre i contenuti originali svincolati dalle catene distriubutive sono comunque abbastanza da popolare una dieta mediatica alternativa, quindi direi che “ne è valsa la pena” 🙂 Andando più in profondita, direi che il mash-up e la curation intercettano un valore che prescinde dall’innovatività del contenuto in sè. E’ il valore del nostro immaginario individuale. Se chi condivide il contenuto con una persona sa precisamente quali corde contestuali andrà a toccare, il fatto che il contenuto non sia completamente originale è tutto sommato sopportabile. Viceversa, se il contenuto originale “tradizionale ” tende a essere completamente autosaturante (faccio un esempio “Alvin Superstar 3”), il fatto che ci siano dietro creativi che si sono scervellati per un anno a scrivere battute nuove non sposta una virgola delle nostre vite. Ma è solo la mia opinione 🙂

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here