Quando lo Stato si fa brand

Non sarà un fenomeno esclusivamente italiano, ma è indubbio che 18 anni di “mediatizzazione forzata” della vita istituzionale hanno lasciato tracce indelebili nella vita del nostro paese. Lo si vede persino in questi  ultimi mesi, in cui l’Italia è provvisoriamente governata da un pugno di grigi tecnici che si presumono  immuni dal “teatrino della politica”, lasciato – correttamente – ai politici. Sì, perché una cosa è la politica spettacolo, un’altra è uno Stato-spettacolo, come quello a cui ci eravamo quasi assuefatti dopo anni di effetti-annuncio, conferenze stampa di cartapesta, vertici internazionali animati con soubrette ed esibizioni da circo equestre.

Ma le tracce, dicevamo, resistono, specie nelle forme più infide. Dopo la prima, grigissima conferenza stampa del Monti appena insediato, che si rifiutò di presentare la sua squadra nella “sala degli sfondi azzurri” di berlusconiana memoria, infliggendoci una ambientazione degna – per vivacità – del sacrario dei martiri di Adalberto Libera. Ma anche quella era una mossa mediatica. Non avendo l’autorevolezza di un Churchill che poteva promettere esplicitamente “sangue, sudore e lacrime” all’inizio della guerra, il Premier affidò alla desolazione del mobilio il compito di dirci che molto presto avremmo tutti dovuto tirare la cinghia.

Ma è forse la persistenza di alcuni nomi dati ad società o agenzie statali a rivelarci compiutamente  i danni di una vita istituzionale troppo permeata dai riflessi mediatici. Negli ultimi anni ne sono proliferate a dismisura.  Viene in mente Italia Lavoro, che dal punto di vista del lavoro non mi pare abbia combinato granchè, ma serviva evidentemente ad incarnare la promessa del famoso “milione di posti” quando di sicuro ha creato solo delle poltrone per dirigenti “in quota” in una bella palazzina ai Parioli, ovviamente stipendiati dai cittadini. Per non parlare della esilarante Invitalia (ex “Sviluppo Italia”) l’agenzia che dovrebbe stimolare l’attrazione degli investimenti e dello sviluppo d’impresa,  e che nella sua ultima brandizzazione stimola solo risate registrate come quelle del Benny Hill Show.

Poi ci sono quelle che esistevano da prima, ma hanno ritenuto necessario compiere un restyling. Prendiamo Equitalia (“per un paese più giusto”, recita la testata del sito): si tratta dell’agente di riscossione dell’ ”Agenzia delle Entrate”. In sostanza, anche se sembra appena ridondante, è “l’agente di una Agenzia”.

Tra l’altro, prima che esistesse questa entità dal nome rassicurante, l’Agenzia delle Entrate veniva da tutti considerata una specie di male necessario, anche perché non provava a prometterci equità nella riscossione delle imposte e dei tributi. Del resto lo Stato non è tenuto a “venderci” la sua equità. Sono i cittadini, nella consapevolezza di appartenere a un sistema di regole uguali per tutti, a presumere la necessità di uno organismo incaricato di raccogliere le tasse per finanziare i servizi pubblici. Punto.

Ebbene, sarà un caso ma da quando si esiste “Equitalia” questo ente è finito nel mirino della violenza politica (ci sarà tempo per capirne con precisione l’origine), fino al triste primato di finire per essere citato nelle lettere d’addio degli imprenditori suicidi.

Una volta questo non accadeva, ma evidentemente oggi l’arrivo di una cartella esattoriale firmata “Equitalia” che ti proietta nell’umiliazione di uno scoperto di qualche migliaio di euro in banca per qualcuno ha l’effetto della scritta “Game Over”. Qualcosa che può significare: “non ci sei più”, “non sei più dei nostri”. Altro che equità: è lo Stato che sembra dirti “hai perso”.

No, forse lo Stato non ha bisogno di brand. Lo stato non deve “venderci” niente. Lo Stato deve solo fare il suo dovere, al pari di ogni singolo cittadino. E se si sente in obbligo di rimarcare, nei nomi dei suoi enti, la sua giustezza, la sua equità, la sua incorruttibilità, come Stato ha già perso. Forse occorre invertire la tendenza, e rinunciare a un bel po’ di questa grande ipocrisia. Altrimenti, da qui a quando l’Agenzia del Demanio deciderà di chiamarsi “Publitalia” (ooops!) il passo potrebbe essere molto breve.

 

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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