Se il mondo dell’innovazione si muove come quello della conservazione?

Da lontano, si sa, si vedono le cose da altre prospettive e da altri angoli. E in questi giorni d’esilio volontario mi è venuto un pensiero: ma se non riusciamo a far entrare l’Italia nell’era digitale non sarà anche colpa nostra?

Non si può certo dire che l’Italia scarseggi di associazioni, gruppi, esperti e – soprattutto – convegni sull’innovazione sul digitale. E nell’ultimo anno – specialmente – abbiamo assistito a una crescente proliferazione di eventi a tema: dalle Smart Cities alle Start-Up. La moda ha preso tanto piede che perfino i nostrani grigi politici si dimenano (spesso scompostamente) in dibattiti su Twitter e Facebook pur di dimostrare di essere al passo con i tempi. Ciò nonostante, la capacità di crescita reale dei “numeri” nel paese sembra inversamente proporzionale alla quantità di convegni e di inserti in riviste patinate e digitali.

 Perché?

Le ragioni, come sempre, sono tante e molto complesse. Di alcune ne abbiamo già parlato, e molte sono al di là delle nostre possibilità di incidere. Ce n’è una però che mi pare importante e che dipende da noi. Sì, proprio da noi.

A guardare bene, le persone che si occupano d’innovazione in Italia sono (siamo) spesso sempre le stesse. Ci vediamo ai convegni, ci scambiamo i ruoli nelle associazioni, ci invitiamo alle reciproche iniziative, ci parliamo dalle pagine dei giornali. E’ diventato una specie di “club” quasi impermeabile alla società “reale” che ci circonda.

Certo anche noi siamo reali: ma se vogliamo che l’innovazione e il digitale diventino una priorità concreta dell’agenda del paese, e non un argomento per riempire i rotocalchi, dobbiamo spiegarlo ai nostri vicini di casa, alla famigerata casalinga di Voghera e non continuare a raccontarcela fra di noi. E sarebbe, tutto sommato, un’impresa difficile ma possibile. Uscire dai tecnicismi e spiegare quanto, per esempio, la trasparenza dei dati incide sulla corruzione, o quanto sarà impossibile per un giovane trovare un’occupazione decente se non matura competenze “digitali” a scuola,  o quanta competitività stanno perdendo le nostre piccole e medie aziende che patiscono un divario mostruoso di infrastrutture e know-how rispetto ai loro rivali nord-europei o asiatici.

Glielo vogliamo dire ai nostri concittadini che “digitale” non è un termine arcano per pochi eletti, ma il mondo in cui stanno comunque vivendo, senza accorgersene più di tanto? Ma per fare questo, per uscire dai convegni degli “esperti” e fare opera di evangelizzazione vera, bisognerebbe essere compatti, determinati, uniti. Bisognerebbe “fare rete”, no? E, invece, anche fra gli “innovatori” ci si perde nella migliore tradizione italica di primedonne e melodramma.

Ognuno s’innamora delle sue idee, si fa a gara a chi è più “open”, si guarda sempre al meglio e mai al bene, e non si fa squadra. Non capendo che anche le idee più efficaci, le piattaforme migliori, le persone con più esperienza non riusciranno a incidere nella misura e nella forza di cui c’è bisogno. E, infatti, non ci riusciamo.

Se gli “innovatori” finiscono per comportarsi un po’ come i vituperati amministratori pubblici, ed invece di provare a essere (tutti insieme) disruptive  cerchiamo di mantenere le posizioni conquistate, finiremo – nella migliore delle ipotesi – unicamente a consolidare un preziosissimo albo di esperti del settore (magari un ennesimo “ordine”, perché no?).

La situazione italiana è drammatica, ed è sotto gli occhi di tutti. Non è il tempo di dividersi, ma quello di unire le forze. Non è il tempo di chiudersi, ma quello di aprirsi e coinvolgere. Nessuno ce la farà da solo con la sua ricetta. E la cultura digitale ha bisogno di collaborazione e osmosi: è nella sua natura. Misuriamoci sulle cose da fare e non sul particolare, perché in Italia – alla fine – c’è da partire dalle basi, mentre continuiamo a discettare della “coda”. L’ho già detto e lo ripeto: non ci saranno città intelligenti o smart communities, se senza cittadini consapevoli.

Chiediamoci perché in questi anni non siamo riusciti a mettere la questione in cima alle priorità e a forzare gli interventi necessari, perché la responsabilità è anche nostra. I casi di eccellenza, che pur ci sono, continuano a rimanere “casi”, appunto, e non fanno sistema e non cambiano né le statistiche né la situazione effettiva.

Come possiamo far entrare l’Italia nell’era della rete se neanche quelli della rete riescono a fare rete? Come possiamo parlare di innovazione se – alla fine – ci comportiamo come dei conservatori?

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Alessandra Poggiani è Professore incaricato di Interfacce, Sistemi e Contenuti per le nuove tecnologie a La Sapienza di Roma e Visiting Professor di Economia Digitale alla Business School dell’Imperial College di Londra. Collabora alla cattedra di Marketing della Facoltà di Ingegneria Gestionaleall’Università Tor Vergata, con la Business School della LUISS e con il CATTID dell’Università La Sapienza. Ha ricoperto diversi ruoli dirigenziali nel settore pubblico e nel settore privato ed è ora Senior Advisor di società di consulenza nazionali e internazionali per attività di consulenza direzionale nei settori Enterprise 2.0, Customer Experience, Media Digitali e progettualità ICT per la Pubblica Amministrazione. Coordina il gruppo di lavoro sull’Agenda Digitale della Fondazione Glocus e partecipa attivamente alle attività del think-tank Vedrò sui temi dell’open government e dell’Agenda Digitale Europea.

1 COMMENT

  1. Beh, che dire … Il tuo post rispecchia il mio pensiero. Io sono lucana e mi rendo conto che tra noi giovani soprattutto tra quelli che provano a lanciare la loro start up … l’atteggiamenti è da primadonna, e la collaborazione in realtà non esiste perché “1 può copiare l’idea all’altro” …
    E forse questi mini finanziamenti che vengono dati alle start up … a volte posso illudere . Quante persone si definiscono CEO dopo che la propria idea di start up ha avuto un consenso minimo ma che in realtà non si è ancora tramutata in società effettiva… !?

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