Il tempo delle consultazioni

Viviamo nel tempo delle consultazioni pubbliche. Online, a risposta multipla, e multi-oggetto. Facendo un passo indietro fino al 2012 se ne contano quasi 20, per tutti i gusti. Ce ne sono state sulla spending review, sulla riforma del diritto del lavoro, sull’agenda digitale e, venendo agli ultimi mesi, sulle riforme costituzionali e sul programma di attrazione degli investimenti in Italia (più noto come “Destinazione Italia”). Mica male. Appena due anni fa in pochi ci avrebbero scommesso. Oggi invece il paradigma si è invertito. Al punto che è diventato quasi obbligatorio lanciare una consultazione online. Pena non tanto la mancata partecipazione dei cittadini (quella è ancora tutta da dimostrare) quanto il totale disinteresse dell’opinione pubblica. Si perché le consultazioni, quasi tutte, hanno investito più risorse sull’idea stessa di partecipazione che sugli esiti che hanno, o dovrebbero avere. Il che per fortuna non è necessariamente (e non è ancora) un problema. Prima si deve affermare il mezzo. Poi, con il tempo, si fa la sostanza.

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Ecco, se un problema c’è sta altrove. E cioè nel “tempo” delle consultazioni. Inteso in due sensi. Primo: la durata di una consultazione pubblica. Quanto a lungo i cittadini possono avere la possibilità di dire la loro? Un mese? Due? Oppure dipende dal tema? E poi, secondo aspetto: quanto a lungo si deve aspettare prima che l’istituzione che ha consultato dichiari i risultati, e li “faccia propri”? Anche qui viene da chiedersi se non sia una questione di opportunità, per cui il tempo necessario cambia a seconda della complessità della consultazione (e magari del numero di persone che hanno partecipato). Oppure se una regola, per quanto ammissibile di deroghe, debba esserci.

Al primo dei due aspetti è più facile dare risposta. Le consultazioni svolte tra il 2012 e il primo semestre del 2013 – durante il governo di Mario Monti, per capirci – hanno avuto tempi (oltre che modalità, ma è un altro discorso) molto diversi. La più lunga, del Ministero dello sviluppo economico, è durata 86 giorni. Riguardava le linee guida del trasporto marittimo. La più corta è durata appena 24 ore. Un giorno a disposizione degli italiani per indicare al Ministero dei beni culturali quali beni ritenessero più meritevoli di intervento, e perché. La maggior parte si è comunque attestata tra i 30 e i 45 giorni. E in effetti un mese è il periodo più comunemente ritenuto adeguato per una consultazione. Fatte salve alcune eccezioni è il limite sul quale sono impostate le consultazioni della Commissione europea.

Poi è arrivato il Governo Letta che ha provato a mettere ordine. La prima grande consultazione, quella sulle riforme costituzionali, è iniziata l’8 luglio e si è conclusa l’8 ottobre 2013. In tutto 3 mesi. Considerato il fatto che in mezzo c’è stato agosto, possiamo supporre che la durata sia stata definita in funzione di varie necessità. Quella, appunto, di non concludere in piena estate, ma nemmeno di rimandare a settembre. Quella di cercare di raccogliere il maggior numero di opinioni (risultato raggiunto, visto l’ottimo riscontro). E sicuramente anche quella di testare la macchina (il sito adibito alla consultazione era alla prima uscita pubblica e non era affatto scontato che tutto andasse bene). Tre mesi, comunque, non è la regola. La seconda consultazione del governo, su Destinazione Italia, si è fermata molto prima, durando circa un mese.

Prendiamo dunque atto del fatto che un tempo definito per le consultazioni pubbliche non c’è. E forse è un bene che sia così. Perché legarsi necessariamente a un termine e dover poi giustificare ogni eccezione? Più utile, forse, definire una durata minima e massima, per non disorientare troppo l’opinione pubblica (ancora troppo ingenua per apprezzare questi dettagli, ma non durerà a lungo). Questo ci porta dritti al secondo aspetto del problema. E qui invece sono dolori. Il grado di commitment delle istituzioni è basso. Nessuna vuole legarsi all’obbligo di indicare entro quanto renderà noti i risultati delle consultazioni ed entro quanto farà in modo che quei risultati – o almeno parte di essi – diventerà parte integrante delle decisioni. A ben vedere però sono due problemi diversi. Il secondo mi preoccupa più del primo. A che pro consultare se poi non si offre un minimo di soddisfazione a chi ha partecipato, spiegandogli che la norma X e quella Y hanno subito un cambiamento perché la maggior parte dei cittadini ha voluto così? In caso contrario, consultare si trasformerebbe in un mero esercizio retorico. Fine a se stesso. Bisogna anche riconoscere che raggiungere questo risultato – trasformare cioè l’opinione dei consultati in regole – non è facile. Si scontra con la farraginosità delle procedure burocratiche, fa a pugni con la volontà politica e non va neanche a nozze con la stima che i boiardi di Stato hanno di sé. Loro, il gruppetto di giuristi che scrive gran parte delle norme in Italia ha la supponenza (forse a ragione) di ritenere inutili le ingerenze esterne, perché fanno solamente danni. Almeno per il momento dobbiamo rassegnarci all’assenza di feedback concreti post-consultazione.

 Non dovremmo rassegnarci invece sull’obbligo di trasparenza delle istituzioni che consultano. È un preciso diritto di chi ha partecipato (e anche di chi non l’ha fatto) conoscere in tempi rapidi tutti i dati sulla consultazione. Ed è un diritto anche sapere entro quanto questi dati verranno diffusi. È inaccettabile che una consultazione si concluda e, subito dopo, si crei un’aspettativa la cui durata dipende solo ed esclusivamente dalla volontà dell’amministrazione. Dirò di più: oltre che inaccettabile, una simile condizione di incertezza è grottesca. La consultazione sulle riforme costituzionali si è fatta attendere un po’, ma ha prodotto un resoconto eccellente. Utile al giornalista, ma anche allo studioso o al semplice curioso. Quella su Destinazione Italia invece ha prodotto i risultati in tempi brevissimi. Appena pochi giorni per sapere chi, come e quando aveva espresso la sua opinione. Risultato? Nel primo caso qualche mugugno. Nel secondo qualche ironia. Quest’ultima perfettamente riassunta nell’amichevole battibecco avvenuto su Twitter tra Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni e Stefano Firpo, capo segreteria tecnica al Ministero dello sviluppo. Il primo si chiedeva cosa avesse reso improvvisamente efficienti i funzionari del Ministero, per essere stati così rapidi nell’esame di una mole di dati tanto sostanziosa. Il secondo rispondeva nel modo più logico: “non vi sta mai bene niente. Se siamo troppo lenti è perché siamo troppo lenti, se siamo troppo veloci è perché siamo troppo veloci”. Il bello è che hanno entrambi ragione da vendere.

Al 2014 chiediamo qualche paletto in più. Pochi, per carità. Quelli necessari per sapere quando inizia e quando finisce la democrazia online. Anche il tempo fa la (qualità della) democrazia.

 

 

 

 

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