Facebook siamo noi: dieci anni di narrazione che ci ha reso familiare la rete

Dei 10 anni con Facebook noi italiani ne abbiamo vissuti la metà, quando dopo l’estate del 2008 è cominciata un’iscrizione che è diventata sempre più di massa al social network. Lo raccontano bene i dati dell’osservatorio Facebook di Vincenzo Cosenza: complice un passaparola che comincia sotto l’ombrellone da parte dei giovani (19-24 anni) – più che l’esaltazione da parte dei media che arriverà solo più avanti e con toni preoccupati rispetto alla privacy – e il desiderio di mantenere quei contatti che abbiamo costruito nella nostra vita quotidiana, e forse anche durante le vacanze. Una manciata di anni in cui abbiamo visto costruire una narrazione pubblica in cui Facebook è diventata la nostra metonimia per la Rete.

Proviamo a tracciare la timeline degli italiani su Facebook attraverso alcune trasformazioni sociali e culturali, immaginate come status in evidenza nella bacheca collettiva, senza pretendere di essere esaustivi, solo di scorrere in modo disordinato con un mouse della memoria.

facebook-utentiDicembre 2008
Un signore sui sessanta fa la fila al punto vendita computer di un ipermercato e al suo turno il commesso gli chiede “Quali caratteristiche deve avere?”, “Guardi” risponde il signore “basta che vada su Facebook”.
In pochissimo tempo Facebook è stato per un pubblico più generalista del web un mezzo di socializzazione ai linguaggi del digitale
, abituando ad un consumo connesso di contenuti, alla loro condivisione, alla segnalazione, alla chat, alla posta elettronica… Si è proposto come un ambiente totale di comunicazione in cui trovare diverse possibilità espressive e di raccordo tra persone.

Aprile 2008
Due trentenni in pizzeria discutono animatamente di un loro conoscente che si è fidanzato: “Ma come fai a saperlo?” “L’ho letto su Facebook”.
Ci ha abituato a pensarci in uno stato di connessione in cui i comportamenti online hanno conseguenze su quelli offline
, perché quello che scriviamo in uno status può diventare argomento di conversazione con il nostro collega di scrivania.

Gennaio 2010
Nell’autobus, all’ora di punta al ritorno da scuola. Due giovani liceali, un ragazzo e una ragazza, chiacchierano scambiandosi gli ultimi pettegolezzi. Arriva la fermata del ragazzo e la loro conversazione si interrompe: “Ciao, adesso scendo. Finisco di dirtelo su Facebook”.
E questo carattere di continuità tra dimensione online e offline è stato un elemento centrale di quella cultura digitale che con Facebook molti italiani hanno imparato.

Dicembre 2009
Piazza San Giovanni “Ma ce la faremo a riempirla?”
Lungo questi anni con il social network abbiamo visto come sia possibile auto organizzare chi non ha un’organizzazione formale alle spalle. L’esempio tutto italiano del Popolo Viola è quello del primo movimento con portata di massa che è cresciuto e si è gestito attraverso Facebook, mostrando come comunicazione online e realtà territoriali siano strettamente relate. Ma abbiamo anche capito che non necessariamente questo livello di partecipazione corrisponde alla strutturazione di un pensiero politico capace di dare vita ad un’organizzazione che vada oltre l’onda movimentista.

Ottobre 2010
Non era Facebook, era lo zio Michele
Facebook è diventato parte integrante dell’habitus mentale della notizia giornalistica. Vi ricordate la vicenda di Sarah Scazzi, scomparsa a fine agosto 2010? La morte della ragazza andava forse ricercata nei meandri della Rete e in particolare tra le connessioni dei suoi profili Facebook, come ha insistentemente immaginato Bruno Vespa quando dopo tre mesi, ancora nella puntata del 4 ottobre, ha esordito sulla vicenda dicendo che «i giovani si rifugiano in internet, che è un’insidia molto pericolosa». Invece non c’entrava Facebook, non c’entravano i molti profili di Sarah gestiti anche dalle amiche, e tantomeno c’entravano i presunti innamoramenti nei social network con fughe annesse.
Da allora però non c’è notizia tragica che non peschi tra le foto del profilo della persona scoparsa/uccisa/accusata/sospettata e cerchi di scavare tra i post nella Home come fossero prove tangibili, confessioni, profili psicologici autoprodotti.

Agosto 2009
Rimbalza il clandestino. “L’obiettivo è mantenere il controllo dei clandestini che arrivano in Italia”
Con Facebook è diventata sempre più visibile senza mediazioni – del giornalismo, ad esempio – una certa “pancia del Paese”, i nostri umori più partigiani, il fiele che caratterizza molta comunicazione qualunquista o misogina o razzista. Abbiamo imparato a riconoscere il discorso d’odio e la difficoltà di contenerne la diffusione, la sua potenza virale. E che l’ambiente in cui ci trovavamo collocava le possibilità di pacato confronto accanto alle più sfrenate contrapposizioni. Ma abbiamo anche cominciato ad imparare che i migliori anticorpi siamo noi, quando decidiamo di non diffondere e dare visibilità a una app di gioco xenofoba in cui si deve sparare a migranti che arrivano in gommone sulle nostre coste, come il “Rimbalza il clandestino” che nell’estate del 2009 veniva proposto sulla pagina Facebook della Lega Nord.

Febbraio 2010
“Giochiamo al tiro al bersaglio con i bambini down”
Il discorso d’odio travalica se stesso e muta, seguendo i linguaggi del mezzo, in trollismo. Si tratta di un pericolo diverso che impariamo seguendo le vicende di pagine come “Giochiamo al tiro al bersaglio con i bambini down” o “Gettare gli handicappati nei burroni”, costruite ad hoc per attirare lo sdegno di chi frequenta Facebook e finire per abbindolare l’opinione pubblica quando il giornalismo, sempre attento a quanto si nasconde alla luce del sole nel social network, fa diventare notizia il pericolo che corre in Rete, parlando di “gruppi choc” con numerosissimi fan. Senza conoscenza del mezzo si scambiano per sostenitori coloro che fanno like al gruppo solo perché è l’unico modo per manifestre all’interno il proprio sdegno (questa regola verrà cambiata, per la gioia di chi vuole essere libero di criticare un contenuto senza dover necessariamente apprezzarlo prima con un like). Ma nel tempo stiamo imparando una regola importante per la nostra vita in Rete: don’t feed the troll, non alimentiamo il troll con commenti, non accendiamo discussioni, non diamogli visibilità. Una lezione che, guardando come una certa politica tracima online, non sembra che abbiamo ancora imparato.

Luglio 2012
“Oggi più che abbonarci ai canali televisivi con Facebook ci abboniamo alla vita degli altri”
Abbiamo imparato che non possiamo parlare di Facebook solo come di un ambiente relazionale che ci aiuta a gestire i contatti sociali ma che dobbiamo pensarlo come una sorta di medium generalista, fatto per curiosare tra i contenuti, buttare un occhio a quello che succede nel proprio stream. La fruizione dei contenuti condivisi dai nostri contatti, pagine e gruppi che seguiamo diventano una modalità di uso generalista tra informazione ed intrattenimento, un po’ un modo diverso di fare zapping all’interno di uno schermo. E che si lega sempre di più ad un secondo schermo: quello della televisione. 

Febbraio 2013
Sanremo 2013 è stato il programma più commentato online
Facebook è stato il primo ambiente a render evidente come il bisogno di massa di aggregarci attorno a contenuti mainstream ma “dal basso” fosse un’opzione praticabile. Solo che disperdeva le potenzialità della social television nell’impossibilità di aggregare le persone al di fuori delle pagine/profili di un programma tv, ad esempio, mentre Twitter lo ha sempre fatto meglio grazie agli #hashtag. Sarà per questo che Facebokk li ha introdotti nel luglio 2013 al fine di sfruttare questa che è una possibilità di business straordinaria. I primi risultati? Nell’edizione numero 48 del Super Bowl le citazioni di hashtag relativi alle pubblicità andate in onda (il minuto pubblicitario più costoso al mondo) hanno visto Facebook superare Twitter nella lotta per la conquista del second screen.

 Settembre 2013
I residenti hanno prima aperto una pagina Facebook e poi si sono conosciuti nella realtà: ora si scambiano favori e i negozi della via fanno sconti ai “fondazziani”
Facebook si è mostrato come l’ambiente mediale particolarmente adatto a supportare il nostro bisogno di socialità, di radicarci nuovamente agli altri e anche al territorio, dopo un racconto da sbornia da globalizzazione comunicativa.
L’indicatore più recente sta nei gruppi social street, a partire dall’esperienza di quello “Residenti di via Fondazza” di Bologna (tra gruppo chiuso e pagina).

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Dicembre 2013
“È una cosa così, anche se in effetti riconosco che sono cambiato anche io, sono più aperto al dialogo, dialogo con persone che non ho mai visto e non conosco. Secondo me, questa cosa mi ha aiutato. Qualcuno dice “ti chiudi in casa e non esci più”. Non è vero: se non parli più e non esci più è un problema tuo, al di là di Facebook”.
In questi anni abbiamo imparato che Facebook non può essere considerato un mero luogo di simulazione anonima, totalmente sganciato dalla realtà quotidiana. Piuttosto va pensato come uno spazio non anonimo che offre all’utente l’opportunità concreta di enfatizzare quelle parti della propria identità che non sono facilmente esprimibili negli ambienti faccia a faccia, di mettere in scena una immagine di sé più socialmente desiderabile: i sé possibili auspicabili. Ma questa immagine non va considerata come una semplice maschera virtuale, dal momento che la narrazione identitaria su Facebook produce sempre un impatto importante nell’idea che una persona vuole dare di sé agli altri. Allora forse forse lungi dall’essere un luogo alienante dove esibire impunemente le parti più intime di sé o uno spazio anonimo in cui simulare una identità fittizia, per gli utenti italiani Facebook rappresenta uno strumento comodo ed economico per tenersi in contatto e alimentare la rete più stretta dei propri legami sociali e, allo stesso tempo, un mezzo veloce ed efficace per osservarsi e confrontarsi reciprocamente. Analizzando le tante biografie d’uso incontrate nel corso della ricerca su Relazioni sociali ed identità in Rete: vissuti e narrazioni degli italiani nei siti di social network, abbiamo capito come gli italiani abbiano imparato anche a cogliere le vere opportunità offerte da un social network come Facebook: quello di essere uno spazio di riflessività connessa sul senso dell’amicizia e sul valore dei legami sociali, sulla necessità di preservare la propria sfera privata e l’opportunità offerta di raccontarsi in pubblico, come soggetto e non più semplice oggetto di comunicazione.

3 febbraio 2014
“Mark Zuckerberg assume giornalisti/editor per lavorare alla sua app, Paper, annunciata oggi. Il mercato delle social news è in fermento, e ci sono molti più che buoni motivi.
Un giorno prima del compleanno di Facebook viene lanciata una app che trasformerà il modo di fruire di news in un mix tra contenuti professionali e provenienti dalla timeline. Ma il senso più profondo di questa operazione sta nella fine dell’idea di social network come luogo totalmente inclusivo in cui entrare per svolgere ogni tipo di funzione, a favore di una frammentazione delle diverse possibilità relative a comunicazione e contenuti: disassemblando è possibile sfruttare contenuti e modalità di comunicazione diverse per pubblici diversi con bisogni diversi e seguire la via della mobilità dell’uso. Facebook è sempre meno un luogo in cui si entra e sempre più quella cosa che si inserisce negli interstizi della nostra quotidianità vibrando in tasca quando arriva una notifica, che da oggi sarà anche una news.

2017
“Nei prossimi tre anni Facebook potrebbe perdere l’80 per cento o più dei suoi seguaci”
Forse Facebook non arriverà ad avere altri 10 anni di vita, come ipotizza una ricerca dell’università di Princeton che applica al social network un modello epidemiologico che lo tratta come una malattia sociale che svanisce nel tempo. Quello che è certo è che se usiamo giovani italiani come termometro del suo valore vediamo come nell’ultimo anno questi si siano mostrati più interessati a piattaforme per condividere le foto come Instagram (peraltro acquistata da Facebook) o di condivisione anche anonima di contenuti come AskFM o sistemi di instant messaging come WhatsApp. Probabilmente dietro a questo spostamento troviamo la ricerca di soddisfare il bisogno di modalità espressive e relazionali diverse: ripensare i contenuti online in una direzione che non dia per scontato che siano per forza permanenti e visibili ad un pubblico; definire meglio le cerchie sociali con cui comunicare; giocare di più con le possibilità dell’anonimato; non essere così esposti ad un ambiente in cui ormai stanno moltissimi degli adulti che loro conoscono e da cui si sentono osservati.

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