Social Design come frontiera del Social business: intervista a Marco Pietrosante

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Marco Pietrosante è Designer Manager e Coordinatore dell’area Master dell’ISIA.

Programmare e progettare sono le parole che rimbalzano in qualsiasi comunicazione sulle necessità di innovare e cambiare i modelli economici e produttivi contemporanei. Sulla frontiera di questa tematica troviamo alcuni designer, architetti, liberi pensatori che ci raccontano storie interessanti. Ascoltandoli si comprende la necessità di trovare categorie interpretative nuove per il Business e per l’innovazione sociale, trovandone magari, grandi aree di collaborazione.
Oggi intervistiamo Marco Pietrosante Designer Manager e Coordinatore dell’area Master dell’ISIA.

Il Social Design è un termine che negli ultimi anni inizia a prendere spazio nella comunicazione ma come pensi sia giusto definirlo?
Il termine Social Design ha una lunga storia. Nasce verso la fine degli anni ’60 grazie al contributo di progettisti e teorici del design che intravidero, sulla spinta dei movimenti giovanili dell’epoca, un nuovo modo di interpretare i termini di crescita e sviluppo.
Designer come Thomas Maldonado o Victor Papanek in quegli anni teorizzarono, e praticarono, la declinazione del progetto industriale in una chiave che poneva al centro dell’azione il rispetto della dignità umana e dell’ambiente.
Concetti controcorrente, difficili da far accettare ad un sistema tutto proteso verso la crescita del profitto vista come crescita globale. Analisi che però aveva mentori importanti in personalità di primo piano, come Bob Kennedy, che proprio in quegli anni enunciava il famosissimo discorso tenuto alla Kansas University, pochi mesi prima di essere assassinato.

“Social Design ed innovazione” può questo binomio creare una nuova sfida per il mondo imprenditoriale italiano?
Assolutamente si. Viviamo tempi difficili da interpretare, in cui i valori condivisi sono si sono nebulizzati nella nebbia dell’indifferenza. L’azione sociale nel suo insieme, quindi anche il Social Design, si pone come uno dei riferimenti alti, un faro che ci può aiutare, come d’altra parte, l’innovazione.
L’azione di innovazione, quindi, coniugata all’attenzione progettuale per i temi che colgono e rispettano le esigenze più profonde dei popoli, può rilasciare grande energia, anche in termini economici. È un occasione che gli imprenditori, non solo italiani, debbono saper cogliere.

Un designer come si relaziona al tema del Social Business, quali possono essere gli spazi di riflessione aperti da questo diverso modo di affrontare il mercato?
La diversa sensibilità dei progettisti, pone l’accento su valori sociali o di mercato in maniera più o meno evidente. Affrontare il tema del Social Business significa fare una scelta di campo con determinazione, avendo acquisito come dati incontrovertibili istanze quali la sostenibilità, la parità dei diritti, l’attenzione per l’altro.
Considerazioni che amplificano il ruolo dei progettisti come interfaccia tra mondo imprenditoriale e mondo reale. A dire il vero i designer hanno sempre presidiato questa posizione intermedia tra mondo della produzione e del consumo. In qualche modo sono stati e sono, “mediatori culturali tra produttori e consumatori” come ho avuto modo di scrivere nel saggio di imminente pubblicazione sul tema, scritto a quattro mani con Pierfrancesco della Porta.

Il mondo accademico in questi ultimi anni ha sviluppato interessanti progetti formativi in materia di Social Business, si può dire altrettanto del Social Design?
In realtà si è fatto ben poco. Ci sono insegnanti delle facoltà di design che all’interno del percorso accademico propongono questi temi come parte centrale della ricerca, ma si tratta di iniziative “personali”, proprie di chi esprime tale sensibilità.
Fortunatamente però, una importante istituzione per l’alta formazione come l’ISIA, sta proponendo presso la sua sede di Roma, un corso post-laurea che affronterà proprio queste tematiche, con l’obiettivo di formare progettisti che siano in grado di dialogare con i diversi attori di questo sistema e saperne cogliere le opportunità.
La vera scommessa di questa iniziativa, e altre che speriamo prenderanno forma, sarà quella di riuscire a coinvolgere partner economici ed istituzionali in grado di recepire la forza di questa proposta innovativa.

Può il social design trovare connessioni con il tema “Feed the world, energy for life” dell’Expo15?
Su questo mi permetto di risponderti con un esempio che mi ha coinvolto recentemente, ovvero la collaborazione avuta come designer con il WFP, organizzazione internazionale che si occupa di sostenere l’alimentazione delle popolazioni colte da eventi emergenziali o crisi strutturali.
In quell’occasione il tema verteva proprio sul tema del cibo, ovvero l’elaborazioni di strumenti e progetti in grado di migliorare le modalità per sfamare ingenti numeri di utenti. Ragionare insieme sul sistema distributivo, comunicativo ed operativo ha evidenziato notevoli aree di progetto nelle quali i designer possono essere parte attiva e propositiva.
Il progetto, come ci insegna Bruno Munari, uno dei padri del design italiano, nasce come risposta ad un problema e vorrei citare una delle frasi guida dei progettisti: “il vero problema è il cibo”. Del resto proprio Munari come esempio per spiegare cosa è il design, usa la ricetta per realizzare il riso verde.

A tuo parere quali sono le linee di sviluppo per il social design nel prossimo decennio?
Il design si caratterizza per essere una disciplina legata alla contemporaneità, questa per sua essenza strutturale. Non è dato parlare di design se non è restituzione, attraverso il progetto, del sentire più cogente di un dato momento storico. Nel passato il design ha trovato la sua espressione più avanzata nei settori più vari, arredo, automotive, etc.
Oggi vedo nel Social Design la stessa tensione propositiva che lo porterà ad essere il protagonista dei prossimi anni. È una speranza ma anche un buon auspicio per “sistema umano” i cui paradigmi sempre più mostrano la corda.
Può sembrare strano ma negli anni ’70 i designer più attenti, si impegnavano sul tema dell’ecologia, ricavandone indisponibilità ed irrisione, salvo poi scopristi tutti green sul finire degli anni ’90. Oggi, a mezzo secolo da allora, la tematica ambientale è parte integrante dell’azione, vera o fittizia, di qualsiasi attività imprenditoriale o politica.
Questo mi lascia ben sperare.

 

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