Elegia del fare. 8 – Le scuole

In attesa di capire come il MIUR pensa di dare vita ad azioni coordinate di digitalizzazione delle scuole (nel “Piano Crescita Digitale” se ne parla pochino, mi pare), fortunatamente abbiamo centinaia e centinaia di istituti che si organizzano per offrire al sistema (insegnanti, studenti, famiglie) un “minimo sindacale” di innovazione tecnologica finalizzata a costruire comunità e reti di relazione digitale.
La presenza o meno di “e-Leaders” (un/a Preside, un/a o più insegnanti) rappresenta l’elemento capace di fare la differenza: si parte su base più o meno volontaristica, affidandosi alla capacità di contagio (una sorta di azione virale finalizzata a raccogliere consenso e adesione).
scuola-digitaleMolto spesso l’innovazione è spinta dagli studenti, i quali giustamente “reclamano” una scuola non troppo dissimile da tutto il resto della realtà sociale. Nascono e si diffondono communities di studenti e insegnanti “always on”, sfruttando social media generalisti (Facebook, anche attraverso gruppi chiusi o segreti, Whatsapp) o piattaforme consolidate di “social classroom”. Nascono e si diffondono comunità di pratica “di materia”, dove decine di insegnanti anche geograficamente distanti fra loro condividono conoscenza, materiali didattici, idee, esperienze.
Il tutto secondo le “non regole” dello Shadow IT: tutto sfugge ai censimenti, alle rilevazioni del MIUR o dei vari osservatori che a vario titolo si occupano di scuola digitale. Ma questo “tutto” esiste, molto spesso è finanziato dalle famiglie degli studenti, e funziona benissimo.
Con tanto di testi digitali “alternativi e clandestini”, dispense postate, compiti di gruppo svolti utilizzando strumenti di collaboration, contenuti multimediali scaricati in quantità industriale.
A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, tutto benissimo: queste reti si diffondono, il passaparola degli studenti e delle famiglie favorisce il contagio, nascono nuovi adopters, e il gioco è fatto.
Il “fare” contrapposto al “facciamo convegni per fare il punto della situazione”.
Ottimo.

Peccato che invece il bicchiere sia vuoto molto più che a metà: non è possibile che questa “Scuola 2.0” debba vivere in condizioni di quasi clandestinità, che le statistiche ufficiali non rilevino questi fenomeni non riconoscendoli come reali. Nonostante alcune piattaforme di social classroom siano commercializzate anche attraverso il MEPI, marketplace specifico per il mondo della scuola, e siano state presentate ufficialmente al MIUR.
Peccato che il bicchiere sia molto vuoto soprattutto perché non è possibile affidarsi sempre e solo alla buona volontà e all’entusiasmo di singoli e-Leaders, creando involontariamente scuole di serie A e di serie B. Anche perché (basta essere genitore di un ragazzo in età scolastica per rendersene conto) si sta diffondendo una sorta di orientamento alla scelta dell’istituto dove iscrivere i propri figli anche sulla base della disponibilità di strumenti e iniziative “2.0” più o meno clandestine.

Il MIUR e gli Uffici Scolastici Regionali devono investire in sensibilizzazione e formazione degli insegnanti.  Per il resto c’è il mercato, c’è la disponibilità delle famiglie di supportare finanziariamente le iniziative (purchè valide) esattamente come già fanno per pagare carta (fotocopie e/o igienica, ahimé) e altre necessità quotidiane di istituti scolastici sempre più in difficoltà.
C’è il problema della connettività nelle scuole e del Wi-Fi: e siamo in attesa dei più volte annunciati bandi MIUR.
Forse c’è anche qualche problema di privacy, anche se le “vere” piattaforme di social classroom sono assolutamente in regola.

Soprattutto, c’è il problema dei nostri figli. I quali continuano a non capire come mai la scuola sia un “altrove” rispetto al mondo reale.
Un grosso grazie agli e-Leaders, a quegli insegnanti che si sono dati da fare e che ci hanno creduto. Anche questo, è “Fare”.

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