E se chiudessimo i commenti?
Questo ci siamo chiesti dopo la presa di posizione di Beppe Severgnini sul Corriere: l’ultima di una serie d’interventi tesi – specie da parte delle testate online – all’autotutela dalla mancanza di educazione, di «educazione civica digitale», sempre più diffusa in rete. Perché, dice Severgnini, «siamo giornalisti, non guardiani di uno zoo».
Una tendenza che convince, da un lato, e fa discutere dall’altro: la conseguenza sarebbe lasciare la sporcizia ai social network, destinati a diventare così prossimo «sfogatoio», «discarica del web». Come se i social non fossero altrettanto vetrina di un’azienda quanto il sito, se non di più, benché a buon diritto, in assenza di leggi, possano ancora proporsi quale «veste informale», libera prateria di scambio senza responsabilità né per chi scrive né per il Brand stesso di cui si scopre il «bagno sporco».
Proprio di recente una grande azienda ha avuto un serio problema nella erogazione dei propri servizi. Nessuna traccia su sito, “vetrina” del Brand. I social invece, aperti, hanno registrato in poche ore qualcosa come 6mila commenti. E tutti gli altri siti e testate riportavano la notizia. È questo forse meno lesivo dell’immagine aziendale? Nessun #Fail, solo incidenti che purtroppo possono accadere. Il punto è che, in generale, buttare la polvere sotto il tappeto è inutile e dannoso.
Il problema, dunque, non si sposta. Sui social si riproprorrà identico. Che fare dunque? Chiudere i commenti anche lì? Gestirli – ma attenzione, sino all’impossibile, sino a dover ipotizzare una squadra di decine di Social Media Manager sprezzanti del pericolo pronti a fare solo una cosa, combattere inutili battaglie coi troll? È questo – anche economicamente – conveniente per un Brand? Non lamentiamoci poi del «Social Media ROI».
Paul Farhi sul Washington Post l’aveva già detto mesi fa. Come riportato anche da Il Post: «Attenti, troll. I siti di news stanno diventando sempre più resistenti ai vostri commenti aggressivi, rudi e talvolta anche volgari. Di fronte ai lettori anonimi che non riescono a resistere alla tentazione di postare commenti sgradevoli sotto gli articoli online, da tempo alcuni siti di news adottano misure per arginare la loro ignoranza verbale. E alcuni di loro, stanchi del caos che si crea quando la libertà di espressione prende una piega un po’ troppo libera, stanno chiudendo del tutto i commenti».
Di fronte all’«hate speech», i commenti «volgari ed eccessivi che superano il limite», il Chicago Sun-Times ha deciso di sospenderli. Anche il sito di Popular Science ha chiuso i commenti dopo che diversi troll «hanno reso qualsiasi discussione costruttiva impossibile». «Vox, un sito di news che “spiega le cose”, è andato online il mese scorso senza possibilità di commentare»: «quella che doveva essere una comunità di persone si è trasformata in una serie di polemiche e insulti». L’alternativa? Mettere in campo l’artiglieria. Il Washington Post ad esempio «permette ai suoi lettori di segnalare i troll attraverso il pulsante “Report as Abusive” che indirizza i commenti sospetti a uno staff apposito», deputato a controllarli uno per uno e valutare se rimuoverli.
È sufficiente uno sforzo simile, peraltro tanto grande? «Quando sembra che le cose stiano per andare fuori controllo», continua Farhi, «il giornale chiude i commenti», come «con gli articoli su Michelle Obama, su Chelsea Manning e sulle cronache di morti o feriti gravi», o quelli «sulla sparatoria ai Navy Yard di Washington».
Ancora più forte l’armata messa in campo dal New York Times: «ci si dedicano 14 persone, di cui 7 a tempo pieno», che leggono i commenti uno ad uno, per «minimizzare l’incivilità». In ogni caso, qui come quasi ovunque, l’amichevole invito «Share your thoughts» è condizionato alla registrazione dell’utente via creazione account, tramite social network e indicazione del proprio nome completo e indirizzo: per diventare «trusted commenter», commentatore «affidabile». Il minimo dell’autodifesa, che però, quando introdotto, ha sollevato infinite polemiche: «Ad alcuni è sembrato che volessimo limitare la loro libertà di espressione», ha spiegato Tim McDonald dello Huffington Post. Da allora, però, le conversazioni sarebbero diventate «molto più civili» e i troll «diminuiti».
E i social? Il problema resta aperto. Come riportato da Anne Applebaum su Slate, «un account Twitter, @AvoidComments, ricorda periodicamente ai lettori di ignorare chi fa dei commenti da un account anonimo»: «nella vita reale non ascoltereste un tizio di nome Sempreretto87. Non leggetene i commenti».
Il problema però può andare ben oltre la Brand reputation: «Lo scorso anno alcuni giornalisti russi si sono infiltrati in un’organizzazione di San Pietroburgo che paga alcune persone per postare almeno 100 commenti al giorno», ricorda la Applebaum. «Un’inchiesta condotta nell’estate del 2014 ha mostrato come un imprenditore pagava alcuni troll russi per gestire dieci account Twitter con circa duemila follower». Siamo di fronte a un fenomeno sociologico talmente grande che la questione è ormai di spettanza politica: anche estera. «Poco dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il Guardian ha ammesso di avere delle difficoltà a moderare gli effetti di quella che ha definito “una campagna orchestrata appositamente”». «Bye-bye Eddie», ha twittato qualche mese fa il presidente dell’Estonia poco prima di bloccare l’ennesimo troll su Twitter.
«Per le democrazie, si tratta di una minaccia seria», conclude la Applebaum. Qui, al momento, stiamo tutti a guardare.
Non è forse ora dunque che per tutto il mondo online – web, siti, blog, social network – si avvii una riflessione globale sul tema, che metta leggi là dove mancano o che le evidenzi e le applichi se già potenzialmente in essere? Un progetto che, andando finalmente più a fondo, riscopra e faccia riscoprire già nelle scuole all’individuo come tale – cittadino del mondo digitale come di ogni altra parte del mondo – che cosa significano «educazione», «civiltà», «educazione civica [anche nel] digitale»?
Abbiamo un bello strumento, un bell’ambiente dove vivere domani: evitiamo il game over.
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