Proseguendo nella nostra raccolta di “voci della sharing economy”, dopo aver sentito i pareri di Marta Mainieri e Daniele Viotti, siamo andati stavolta a sollecitare l’opinione di uno dei massimi esponenti mondiali in materia, l’esperto statunitense Jeremiah Owyang. Quest’ultimo, in seguito ad una ricerca svolta per conto di Altimeter sulle potenzialità di stravolgimento delle nuove tecnologie sulle organizzazioni aziendali, rimase talmente colpito dalle possibilità della sharing economy da fondare nel 2013 Crowd Companies un’associazione di consulenza professionale per aziende, imperniata sul potere dell’Economia Collaborativa applicata al business attraverso nuovi approcci di linguaggio e coinvolgimento. Owyang ha subito attirato colossi fondatori come Walmart, GE, Ford, Nestle, Coca-Cola, Visa, Mastercard, Pepsi, Intel e Verizon. (fonte: Forbes).
Sharing economy è un’etichetta abusata?
La gente spesso mi chiede: “Che termine dovrei usare? Sharing economy? Economia collaborativa? Economia della fiducia? O qualche altro termine ancora?” Per loro natura, i movimenti emergenti possono essere massivi, ma impattano ogni singola persona in maniera unica. Di conseguenza, è come se i movimenti stessi lottassero contro il linguaggio fino a che questo non venga affinato in un nuovo linguaggio comune di mercato. Tuttavia, quando i movimenti hanno successo, accade che le diverse espressioni diventano nel frattempo insignificanti, perché ciò che una volta causava discontinuità diventa invece il nuovo stile di vita. Quindi se avremo successo, finirà per chiamarsi, semplicemente, Economia.
In che modo è nato questo nuovo modello economico, e perché si sta affermando in maniera così inarrestabile?
La seconda era (Social) e la terza era (Economia Collaborativa) usano le medesime tecnologie social, ma oltre a condividere i media e le idee, le persone adesso condividono, in aggiunta, anche i loro beni e servizi. I modelli di business devono evolversi, e quelli che condividono beni e servizi saranno quelli con un maggior potenziale.
I consumatori ormai non sono più vincolati al solo acquisto presso le aziende, si trovano di fronte alla possibilità aggiuntiva di condividere, noleggiare e prestarsi i beni tra loro. Il consolidarsi di questo comportamento è riconducibile a tre fattori trainanti nei seguenti ambiti: sociale, economico e tecnologico.
- Fattori sociali trainanti: aumento della densità di popolazione, aspirazione a una maggiore sostenibilità, desiderio di comunità, altruismo generazionale
- Fattori economici trainanti: monetazione dell’eccesso o delle giacenze, incremento della flessibilità finanziaria, finitezza delle risorse, nuovo accesso al lusso temporaneo, accesso piuttosto che possesso, afflusso di venture capital
- Fattori tecnologici trainanti: social networking, dispositivi e piattaforme mobili, sistemi di pagamento.
Quindi, non ci troviamo di fronte ad una moda soltanto passeggera?
Questo significa appunto che è un movimento a lungo termine, non una moda passeggera. Vedo tre categorie, e almeno tredici fattori trainanti (come sopra citati) che alimentano la Collaborative Economy. Così come fu per noi nel 2007 il social, ora questo è un movimento più ampio che ha ripercussioni a molteplici livelli sociali, e quindi anche aziendali. Se questi motori di mercato sono a lungo termine (come spesso lo sono quelli economici e sociali), allora significa che questo movimento molto probabilmente sarà duraturo e propenso ad accelerare. Per chi a suo tempo pensava che il social business già fosse rivoluzionario, dovrà fare i conti con questa nuova tendenza che sicuramente si rivelerà stravolgente in modo più profondo che in passato.
A gennaio 2013, Forbes stimava che “il reddito che arriva dalla share economy direttamente nei portafogli oltrepasserà i 3 miliardi e mezzo di dollari quest’anno, con un tasso di crescita di oltre il 25%. A questo ritmo, la condivisione tra pari sta passando da un piccolo complemento di reddito (in un mercato di salari stagnanti) a una forza economica dirompente”. Ci sono migliaia di transazioni che avvengono da acquisizioni, finanziamenti, e accordi. Ecco solo alcuni dati relativi al 2013: Lyft raccoglie fondi per $60m, Aribnb per $120m, Zipcar è stato acquisito da Avis per $500m, Google finanzia Uber con $258m, eBay/Paypal acquisisce Braintree (sistema di pagamento mobile per Uber e Airbnb) a $800m.
A distanza di due anni, “la capitalizzazione di mercato attualmente in essere ha raggiunto gli 11 miliardi di dollari”, quindi superando di gran lunga le previsioni di crescita. Inoltre, Emmanuel Amberber riporta nel suo articolo sullo sviluppo delle applicazioni on-demand di Juggernaut: “Secondo PwC, nel 2025 il settore on-demand potrebbe raggiungere un valore di circa 335 miliardi di dollari.” Sempre più numerosi sono i brand che partecipano: l’industria automobile, le istituzioni bancarie, i prodotti di marca.
Come inquadrerebbe l’Italia nello scenario mondiale dell’Economia Collaborativa, in termini di evoluzione e tempi?
L’Italia ha l’opportunità di essere un paese di sharing e collaborazione di classe mondiale. Abbiamo riscontrato che le culture mature, con alta densità di popolazione e una solida tradizione sociale costituiscono terreno molto fertile per il fenomeno dello sharing.
L’economia collaborativa è un movimento economico che offre alle grandi aziende la possibilità di connettersi con i propri clienti, capire il proprio mercato e sviluppare delle partnership per la realizzazione di prodotti di nuova generazione. Innanzitutto, è necessario che tali aziende si rendano conto del cambiamento nelle abitudini di consumo: la gente sta trasformando le proprie automobili in taxi, le proprie case in alberghi, e sviluppano i propri prodotti (e non solo) attraverso il crowdfunding. Le grandi aziende devono inquadrare la “moltitudine” in termini di partner, socio e complice.
Dice Owyang: “L’unico modo per le aziende di vincere le sfide della nuova economia e del nuovo mercato è di lasciarsi dietro i vecchi modelli di business.”
(L’intervista è disponibile in inglese a questo link.)
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