Il padre, il figlio e lo spirito dei tempi

(riflessioni a margine del dodicesimo Rapporto sulla Comunicazione del Censis)

Il manager e l’hipster

Lui è sulla cinquantina, aria da lettore di giornali finanziari, una mazzetta voluminosa di quotidiani sotto il braccio, il burberry ripiegato sull’altro, borse sotto gli occhi e una in mano: della “the bridge” of course! Il giovane ha grandi cuffie stilosissime grigio-trend-supertech, zainetto seconda guerra mondiale, giubbotto aderentissimo, camicia montagnosa, in mano l’Iphone 6. La barbetta del ragazzo è finto arruffata con volute perfino barocche all’altezza delle basette; la pettinatura è coerentemente architettonica. La capigliatura del senior invece è sartoriale: non ha un capello fuori posto, è stile Gianni Letta vintage. Si assomigliano in maniera evidente i due. Ipotizzo: un manager tradizionalista con figlio hipster. Venti anni, più o meno, il pargolo.

hipsterSiamo sul “Freccia Rossa” che ci riporta da Milano a Roma. Il padre ha il posto a fianco al mio, il figlio si accomoda di fronte continuando a pistolare sull’Iphone. Biascica anche lui qualcosa quando sente il padre salutarmi, ma senza alzare gli occhi. Lo vedo vagare in continuazione da Instagram a Facebook, con guizzi su Twitter e poi soste prolungate su una playlist, che sbircio ma non mi dice alcunché: non riconosco un solo brano né autore. Cosa che mi fa sentire un po’ datato. Fino a Firenze il figlio non alzerà mai lo sguardo dai suoi quattro cantoni digitali: “tappa” forsennatamente sullo schermo dell’Iphone e sulla cuffia di destra per sistemare il volume dell’audio.

All’improvviso il padre gli scosta una cuffia dall’orecchio per leggergli un titolo del Sole24ore. L’hipster fa spallucce, dice che su Facebook non se ne parla di quella cosa e “quindi non è importante”, e si risistema seccato la cuffia. Inizia una specie di scazzo familiare pieno di “sarebbe ora che tu ti occupassi della vita reale” da una parte e, dall’altra, di “a paaa’… te stai a ‘ncartà! Esci dal castello cartonato, che siete rimasti in pochi intimi là dentro…”. Inevitabile poi “il mondo è altrove!” del padre angosciato, prevedibile la risposta: “Appunto pa’, il mondo è on line, è digitale, il mondo è dove tu non ci sei! “. Poi seguono accuse, rispettivamente di fancazzismo generazionale da parte del genitore con capigliatura millesimata e di inquinamento sociale da parte della progenie arruffata: “con la finanza avete sporcato il mondo e poi… non ci capisco un cazzo né ci voglio capire. Io comunque non mi faccio mediare le informazioni dai giornali, io l’informazione la scelgo, la consumo, la costruisco, la produco, la condivido…”.

Insomma, l’hipster rivendica il primato dell’informazione personalizzata e anche la consapevolezza di essere un prosumer.

Testimonial per il Censis

Se Massimiliano Valerii e Settimio Marcelli, che hanno coordinato la ricerca del Censis per il dodicesimo Rapporto sulla Comunicazione, si fossero imbattuti nella coppia, avrebbero dovuto ingaggiarli come testimonial. Perché i due sono prova evidente della distanza tra la dieta mediatica dei giovani e quella degli anziani “con i primi massicciamente posizionati sulla linea di frontiera dei new media” e i secondi abbarbicati a stili di vita analogici e ai (mass)media tradizionali.

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Il 91,9% dei giovani frequenta la rete contro il 27,8% degli over 65 (e si tratta di un dato in miglioramento!). Se guardiamo alla carta stampata il dato s’inverte: è il 54% degli anziani a leggere i quotidiani mentre soltanto il 27,5% dei giovani lo fa (e il dato è in costante riduzione da anni). Per non parlare dell’uso dei Social che vede solo dati diametralmente opposti. E sul “Freccia Rossa” ce n’era un’evidente testimonianza: un padre che legge su carta, un figlio che legge (o meglio, naviga) su schermo.

L’informazione personalizzata

Questo e il seguente sono due punti forti del Rapporto Censis-Ucsi appena presentato: i TG e i GR sono le principali fonti d’informazione, se guardiamo all’intera popolazione italiana. Ma se facciamo riferimento alle classi di età, scopriamo che per i giovani la gerarchia delle fonti informative è molto, molto diversa.

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Al primo posto, per il 71,1% di loro c’è Facebook come rivendicava appunto il nostro hipster, al secondo Google (68,7%) e solo al terzo i TG, peraltro già insidiati da Youtube. Strumenti attraverso i quali i così detti “nativi digitali” tendono a costruirsi un’informazione personalizzata nella convinzione/illusione che questa sia una manifestazione di libertà, o quanto meno una libera scelta. A molti di loro sfugge che questa può essere una gabbia nella quale si rinchiudono e che non gli consentirà di leggere il mondo ma soltanto un microcosmo che loro scambiano per il tutto. Per non parlare della necessità che non basta avere dati e informazioni per capire i fenomeni nuovi ed emergenti, bisogna saperli aggregare i dati e trovare le chiavi di lettura. Quando parliamo di fenomeni sociali, culturali o addirittura di etica occorrerebbe ancora, a mio avviso, un’intermediazione di “buoni maestri” che ci aiutino a individuare le coordinate interpretative: per capire il mondo e le direzioni che prende non basta la tecnologia che certamente ci aiuta a trasformare i problemi in dati statistici quantitativi da elaborare. Ma il senso dell’esistere, come rilevano i filosofi e i maestri di etica, non si risolve con e nei “big data”: è prima di tutto una ricerca qualitativa.

I territori della disintermediazione digitale

Se per i grandi temi ho appena ribadito la convinzione che l’intermediazione sia irrinunciabile, dobbiamo prendere atto che “gli utenti d’Internet si servono sempre di più di piattaforme telematiche e di provider che consentono loro di superare le mediazioni. Si sta sviluppando così un’economia della disintermediazione digitale…”.  E gli italiani, ci racconta in maniera documentata il Censis, sono convinti che le nuove tecnologie che mettono a contatto gli utenti con i fornitori, evitando l’intermediazione di altri soggetti, abbiano portato miglioramenti molto sensibili.

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Del resto, nel mezzo della querelle familiare tra l’inappuntabile padre e il diversamente pettinato figlio, quest’ultimo gli aveva ricordato, con ruvidi accenti, che la bella borsa “The bridge” era stata acquistata a un prezzo “sdrucito”, proprio grazie alle sue conoscenze del mercato on line. Il padre aveva condiviso sui vantaggi della disintermediazione dei rapporti commerciali, “peccato, che nel caso di specie non sono stato io a beneficiare della differenza di prezzo tra negozio fisico e negozio on line…”.

L’hipster trovò che questo era un dettaglio del tutto trascurabile.

A me sembra che, dalla vicenda e dalla ricerca, si possa tirare fuori una morale (o “lesson learned”, come direbbe Valentina Spotti): la disintermediazione commerciale ti fa risparmiare se agisci in prima persona; ma se chiedi a un altro di agire per tuo conto, finisci per pagare la mediazione sulla… disintermediazione.

Una sorta di ossimoro, costoso. Credo che ne possa convenire anche il Censis.

 

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