Per una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma non dei troll

Confuso. Smarrito. Sconvolto. Come dovrebbe sentirsi il mondo social dopo la notizia di ieri? «La Corte suprema ribalta la posizione sulle minacce online, citando l’intento», titolava il New York Times. «Minacce di morte contro la moglie su Facebook? Non sono reato», riportava il Corriere della Sera.
Come dovremmo sentirci tutti noi?
«Con sentenze come questa», ha dichiarato persino il giudice Thomas, «si gettano gli utenti di Facebook nell’incertezza».

HatespeechI fatti – sui quali peraltro avevamo già posto l’attenzione mesi fa, quando si era ancora in attesa, sottolineandone urgenza, delicatezza e incertezza dell’esito finale. Se la buona notizia, dicevamo, «è che ora la Corte abbia preso in carico il problema, quella meno buona è che ancora stiamo qui a domandarci che fare».
Infatti, con una sentenza che segnerà la giurisprudenza sul tema, la Corte Suprema USA ha annullato lunedì la condanna a 44 mesi di carcere per Anthony D. Elonis, 27enne della Pennsylvania. «È spesso abbastanza per fermare una pallottola?», aveva scritto lui pubblicamente nel 2010 sul profilo Facebook della moglie, “rea” di averlo lasciato, riferendosi al documento di ingiunzione del tribunale che obbligava Elonis a starle lontana. «La ferma, quel pezzo di carta, una pallottola?».
Ora Elonis è in galera per un altro reato – sempre comunque per «assalto contro una donna». A quel post, non a caso, ne seguirono molti altri. Conclusione, la condanna. Due giorni fa, invece, il capovolgimento.
«Ops, scusate, ci siamo sbagliati». No, non voleva far male a nessuno. Chi mai avrebbe potuto pensarlo?!… Era solo depresso, così si sfogava: semplice autoterapia.

Questa la tesi della difesa. La sentenza, dal canto suo, ha attestato che la Pubblica Accusa avrebbe dovuto fare di più per provare la consapevolezza del reato criminale e l’intento di commetterlo. La precedente ordinanza del tribunale della Pennsylvania, secondo cui «qualsiasi persona ragionevole avrebbe interpretato quei messaggi come minacce», non sarebbe risultata congrua con gli «standard sufficienti per arrivare a una condanna». Ergo, un sonoro 7-2 – formalmente anzi un 8-1 – che rende in sé libero Elonis e chiunque altro di scrivere online qualsivoglia cosa di qualsivoglia natura o tono su chiunque e contro chiunque.

«Sei uno **str**! Io mi sc**o tua moglie e t’ammazzo!». Prova a scriverlo oggi sul profilo Facebook del tuo capo. È persona ragionevole: potrebbe mai saltargli di mente che tu lo stia pensando sul serio?!? Prova, sì.
Mal che vada, la lettera di licenziamento ora sai dinanzi a quale Corte contestarla. È così chiaro! Eri solo un po’ stanco per la giornata di lavoro.
«Giudici e legali», ha riconosciuto anche il giudice Alito, «sono così lasciati nella condizione di tirare a indovinare» il livello d’intenzionalità messo da un accusato nelle sue azioni.

Perché dunque la confusione, l’incertezza, la rabbia di cui parlavamo in principio?

Due i motivi.

  1. Proprio di recente, ben diversi erano apparsi gli orientamenti giudiziari nei primi atti concreti sul tema. Solo poco più di una settimana fa lo stesso Corriere titolava: «Cassazione, rischio carcere per gli insulti su Facebook». All’origine, la burrascosa separazione di una coppia di romani per le offese da lui postate su Fb contro la ex e il conseguente processo per diffamazione che ne era nato, con rimpallo tra giudice di pace e tribunale. Il primo applica solo sanzioni pecuniarie, l’altro invece spedisce anche dritti in galera: con pene, nel caso di diffamazione aggravata, da sei mesi a tre anni. La questione stava tutta nel carattere «pubblico» di un profilo social rispetto a siti o blog. Infine, la decisione: sì, c’è «pubblicità». Sì, può esservi «diffamazione», aggravata dal nodo della pubblicità stessa. Sì, può essere carcere.Solo un mese fa si era inoltre saputo: «Gli insulti su Facebook ora vengono multati di 100 euro al giorno». Al centro una ragazza emiliana offesa sul social network: il giudice aveva stabilito cento euro di risarcimento per ogni giorno in cui gli insulti venivano lasciati online.
    E analoghe situazioni non erano certo apparse infrequenti nel recente passato proprio nel mondo anglosassone: In Gran Bretagna il Guardasigilli Chris Grayling ha proposto di elevare la pena contro chi su social «offende oltre ogni misura» a due anni di carcere, «quattro volte tanto» quella attualmente in vigore.
    Oggi invece tutto cambia. Tutto torna come prima.
  2. Quel che è più grave, l’esultanza dei comitati di difesa delle libertà civili dopo la sentenza – da applaudire in quanto estenderebbe «i confini del diritto alla libertà di parola» in Rete – l’entusiasmo del New York Times che, nel suo editoriale, si rallegra per la conferma della «protection speech», del diritto alla libertà di parola, quando queste sono «words alone».

stopSolo parole. Magari. Invece no: eccome se attaccano, se trovano terreno fertile. E in un attimo la violenza online si fa offline.
«Speech» protetto. Ma quale speech? «Hatespeech», semmai. Eppure quello va protetto. Io – offesa, insultata, minacciata, stuprata in rete – no.
Tutti a riempirsi la bocca di difesa del Primo Emendamento, tutti a inneggiare al diritto di una libertà d’espressione ormai innalzata a totem di una presunta inalienabile democrazia, che è invece anarchia, demagogia, se non già dittatura del tiranno.
È vero: occorre «provare l’intento criminale di un gesto per arrivare a una condanna», come ricorda Steven Shapiro, direttore dell’American Civil Liberties Union. Ciò non significa però che io possa uccidere qualcuno perché sono depresso. Magari con infermità mentale, ma la condanna me la devo beccare.

Io sono indignata. «La nostra libertà finisce dove inizia quella altrui». Se mi minacciano di morte, su social o ovunque, io non solo mi sento offesa, ma violentata, profondamente limitata nella mia libertà. E lo stesso penseranno molti dei miei contatti. Anche se poi magari non troverò mai il tipo sotto casa col coltello. Che comunque resta una concreta possibilità. Anche se “solo” mi diffama per motivi personali: magari sessuali, razziali, discriminatori.

Io mi sento discriminata eccome. Lesa. Colpita e quasi affondata.
Possibile che sia sempre io a sbagliarmi? A non capire che, poverino, doveva solo sfogarsi?
Possibile che non esista autorità giudiziaria legittimata a intervenire, anche già solo con le leggi esistenti, a tutela della mia libertà?
Possibile che io non abbia alcun diritto e i troll invece sempre tutti garantititi?
Parrebbe proprio di sì. Viva la libertà, viva la repubblica, viva la democrazia.

 

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