USA, Corte Suprema. Fin qui è arrivata ormai l’emergenza troll. Esplosa già da qualche tempo, divenuta di recente oggetto dell’attenzione delle autorità – del Parlamento britannico e delle sue nuove leggi “anti-troll”, così come di tutto il mondo anglosassone e dei padri del Web come Tim Berners-Lee, deluso e disilluso dinanzi al dilagare della violenza online – rimbalza ora sul banco della Corte Suprema degli Stati Uniti, chiamata ad esprimersi sul caso di un uomo che, su Facebook, ha scritto alla moglie «Ti ucciderò».
«Hatespeech»: minaccia privata o sfogo pubblico? L’accaduto: Anthony Elonis sul proprio profilo Facebook ha postato testi rap violenti e ritenuti oltraggiosi nei confronti della ex moglie Tara. A suo avviso si trattava di una “terapia” per superare il dolore della separazione, per lei invece erano una minaccia. La questione è finita in mano agli avvocati: ed è rimasta aperta, in attesa che a scioglierla sia appunto la Corte.
Che si sia giunti a tanto è senza dubbio indice dell’urgenza di una regolamentazione giuridica e giurisprudenziale della violenza online. Se da un lato rincuora che finalmente le autorità statunitensi abbiano preso a occuparsi e preoccuparsi del problema, sorprende dall’altro che il dubbio si ponga. Alla resa dei conti, infatti, si scopre di essere ancora al punto di chiedersi se sia legittimo o meno diffamare e minacciare qualcuno solo perché lo si fa online e non offline, solo perché si è sul proprio – presunto privato – profilo Facebook e non in una piazza di paese.
Se si fosse fatto lo stesso al bar o in un ufficio, il responsabile sarebbe verosimilmente già stato processato per ingiuria o diffamazione. Proprio Elonis non a caso ha già ricevuto una condanna: mandato di restrizione e 44 mesi.
Qui invece vediamo ancora una parte dell’opinione pubblica social che arriva a difendere come allo stadio l’innocenza di Elonis gridando, con lui, ad attentati al Primo Emendamento, inneggiando alla libertà d’espressione, quando Anthony ha iniziato a riempire la propria Timeline con foto denuncianti “bavagli” e ostacoli all’esercizio dei propri diritti. «Lo sapevate che è illegale per me dire che voglio uccidere mia moglie?», ha commentato sarcastico lui.
La criticità sta sempre in questa presunta spaccatura tra «mondo virtuale» e «mondo reale», inconsapevole del fatto che l’online è più reale ormai della cosiddetta «realtà»: che le leggi contro la violenza – anche su web e social – ci sono, basterebbe prendersi la briga di applicarle – cogliendo così magari l’occasione per aprire il capitolo “Legge su Internet” e mettendo finalmente nero su bianco, nella loro specificità, diritti e doveri dell’online. È nello spazio vuoto di quelle regole e norme richieste invece da ogni democrazia che possono trovare spazio minacce liberamente espresse, senza sanzione immediata e, addirittura, con l’interrogativo ancora aperto se siano da sanzionare o meno. La «Good News» è che ora la Corte Suprema abbia preso in carico il problema: quella meno buona è che, ancora, stiamo qui a domandarci che fare.
Si comprendono in ogni caso, più in generale, i dubbi sollevati da Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei media digitali all’università di Urbino Carlo Bo, nel suo articolo in proposito su Pagina 99. «Una gif animata usata come commento e che presenta un micro video di palese insulto è da ritenersi ironica o no?», si chiede. «E se aggiungo uno smile sorridente a una frase razzista in che modo sto giocando con le competenze interpretative del mio pubblico? E in che modo il mio pubblico costruisce il contesto della comunicazione che produco?». Continua in verità a sembrarci che qui, in termini di contesto, vi sia poco da ricostruire. La frase – rap o meno, profilo «privato» Facebook o meno – è decisamente da stigmatizzare: a nostro avviso, anche e senza dubbio legalmente. La “prateria” va però delimitata con la massima urgenza. Risulterà verificato altrimenti l’esito della ricerca di Student Press Law Center, «The Electronic Frontier Foundation», e Pen American Center: «Gli utenti Internet possono dare sfogo a emozioni su cui non hanno alcuna intenzione di agire, possono memorizzare espressioni di rabbia momentanea o di esasperazione che una volta erano comunicate faccia a faccia tra amici e dissipate senza pericolo».
Da parte nostra non vorremmo che una trascuratezza, da parte dei Governi e delle autorità preposte, dell’emergenza troll e della web violence, finisse per dare ragione a quanto si legge in tal senso nel dossier: «L’interazione disinibita, la discussione e le rivelazioni personali sono facilitate in modo potente dai social media e implicano anche il fatto che il discorso possa essere sgradevole o addirittura penoso per alcuni destinatari, ma questo è proprio il tipo di discorso che il Primo Emendamento è stato chiamato a proteggere». Ci sembra invero che ben altra libertà sia chiamata a garantire la Carta dei Diritti: e che un riconoscimento abituale, nella prassi e dunque infine anche ufficiale della spaccatura tra online e offline potrebbe finire per legittimare – col principio del «contesto», diverso nei vari ambiti e non sempre deducibile con chiarezza dalle espressioni social lette in sé – la gravità e pericolosità delle accuse online, «tanto solo virtuali». Mai letto Aristotele? La «potenza» fa presto a divenire «atto».
Il contesto conta eccome, ma ugualmente nelle conversazioni online e offline. Per sconfiggere i molestatori online, per dire davvero tutti #StopWebViolence, occorre una «Social Education», una nuova educazione civica e digitale insieme, per i bambini sui banchi di scuola come per gli adulti in rete. Vedremo che deciderà la Suprema Corte. Certo non è più tollerabile vedere vite rovinate da delinquenti che si fanno scudo di uno schermo e una tastiera.
UPDATE: Non vorremmo fare cronaca demagogica ma, a proposito di minacce online, ci sia consentito ricordare che proprio in queste ore leggiamo sui giornali di un drammatico caso in cui, a un «Sei morta t…a» lasciato su Facebook, ha corrisposto la morte effettiva della vittima nella realtà. A Salerno il 32enne Cosimo Pagnani ha ucciso con coltellate all’addome l’ex moglie 34enne Maria D’Antonio. Alla quale appunto aveva dedicato offese, improperi e minacce di morte sulla Timeline del social network.
Non ci sono parole. Forse è giunta l’ora di fare tutti una riflessione su quanto i social siano parte ormai della nostra vita: su quanto le forme di violenza che si esplicitano qui siano reali tanto quanto quelle – se non di più – della nostra cosiddetta «vita reale».
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