L’ipocrisia di un mercato malato

Nei giorni scorsi ho assistito ad alcuni fatti che, al di là del loro valore aneddotico, rimandano ad un problema di fondo del nostro Paese. Sono fatti che si ripetono quotidianamente e non costituiscono — ahimè — l’eccezione, ma una deprimente regola.

Tre diverse selezioni per forniture IT (due nel pubblico e una nel privato) si sono concluse con aggiudicazioni al massimo ribasso e tariffe giornaliere inferiori ai 200 €. Si tratta di tariffe assolutamente impraticabili. È sufficiente fare alcuni semplici conti:

  • Bottom-up: 200€ al giorno per 180 giorni medi fatturabili all’anno vogliono dire 36k € di ricavo annuo. È un ricavo assolutamente incompatibile con gli stipendi medi, il costo aziendale e le marginalità che devono essere associati, se non si vuole andare in perdita, all’attività di sviluppatori, progettisti, Project Manager di una azienda minimamente seria.
  • Top-down: il fatturato medio annuale per addetto di una società di servizi non può essere inferiore ai 70–80k € (anzi, deve essere maggiore!). Se comunque prendessimo per buono il valore di 80k € e lo dividessimo per 180 giorni, il ricavo giornaliero che ne deriverebbe è di circa 440 €. Ripeto, 80k € è un valore basso; inoltre, non tutte le persone lavorano per clienti 180 giorni all’anno. A maggior ragione, quindi, si capisce quanto irreali siano certe quotazioni.

Domanda ingenua: i tanti Savonarola nostrani, pronti a stracciarsi le vesti per gli “sprechi” e per la “fuga dei cervelli”, perché qualche volta non provano a fare un semplice esercizio da terza media (o forse da scuole elementari)? Come è possibile che in certi bandi di gara la base d’asta sia un valore sotto le medie dei salari pubblicate da società come OMD? Come è possibile che ci siano aziende che offrano mediamente persone a meno di 200 €?

L’aritmetica e la logica non lasciano molti dubbi:

  1. Si fatturano più giornate di quel che effettivamente si fanno.
  2. Si usano sottoforniture a prezzi stracciati con piccole pseudo-aziende e singoli professionisti.

Ed è indubbio che i committenti questo lo sappiano: come potrebbero non saperlo? Sono io l’unico che ha provato a fare quattro conti?

Quindi il circolo perverso è questo:

  1. gli uffici acquisti delle società private e chi bandisce gare pubbliche puntano ad avere tariffe unitarie basse così possono dimostrare di aver fatto bene il loro lavoro che sarebbe quello di “spremere i fornitori e risparmiare”.
  2. I fornitori si adattano e poi moltiplicano per un multiplo le reali giornate erogate, e/o fanno fare il lavoro a personale con qualifiche e professionalità medio-basse.

Questo atteggiamento viene rafforzato da un altro perverso fenomeno: siccome chi compra spesso non vuole assumersi la responsabilità di una scelta di tipo qualitativo, si rifugia “nell’oggettività” della tariffa più bassa. Oppure, all’estremo opposto, si affida al brand internazionale di grido che “se lo scegli di certo non sbagli” (come diceva una battuta di moda qualche anno fa e ancora amaramente molto attuale).

In tutto questo, qualità dei risultati, valorizzazione delle professionalità e maturità del mercato spariscono nell’ipocrisia collettiva.

Il mondo nuovo che evochiamo e non capiamo

Questi problemi si innestano in un mercato in profonda trasformazione. Da un lato si sono ormai affermati modelli di fornitura incentrati sul cloud computing e su approcci “as a service”. Dall’altro, si iniziano a vedere nuovi approcci basati su quella che viene chiamata API Economy: fornitura di API che possono essere inglobate all’interno dei sistemi software che devono essere sviluppati. Inoltre, non si finisce mai di parlare — spesso a sproposito ahimè — di startup e piccole società innovative che dovrebbero iniettare innovazione nei progetti e nelle realizzazioni. Il tutto in un contesto che richiede velocità, flessibilità e agilità.

Ha senso gestire queste forniture secondo le classiche regole di procurement, nel pubblico come nel privato?

Ovviamente no.

E cosa stiamo facendo per adeguarci a questo mondo nuovo che ormai è qui tra noi?

Qualche giorno fa ne parlavo con i colleghi di CONSIP. Mi hanno raccontato dei vincoli presenti nelle norme italiane e europee sul procurement pubblico di beni e servizi: non basta cambiare attitudine se ci troviamo in presenza di norme che impongono certi approcci, quanto meno nel pubblico.

In conclusione, per una molteplicità di motivi e fattori, il procurement privilegia innanzi tutto la riduzione dei costi, indipendentemente da qualunque valutazione progettuale e di qualità. Inoltre, continuano ad immaginare che nel 2016 si sviluppi software ancora secondo le modalità classiche da “ciclo di vita a cascata”. Alla faccia della retorica tronfia che un giorno sì e l’altro pure parla di Agile Development, Open Innovation e Open Source.

In realtà il mondo è cambiato e noi non ce ne accorgiamo o non siamo capaci di tenerne conto o, peggio, non ne vogliamo tenere conto.

Nel privato, gli uffici acquisti sono incentivati dai vertici aziendali a tagliare costi e quindi non possono che adattarsi a questo andazzo.

E nel pubblico?

Stiamo aggiornando il codice degli appalti e quindi dovremmo assumere che questi fenomeni dovrebbero essere stati tenuti in considerazione. E invece no: il software e l’ICT in generale sono gestiti come un qualunque altro bene o servizio, senza rendersi conto di quanto sia anacronistico e assurdo questo approccio.

E, soprattutto, non ci rendiamo conto di quanto incoerente sia tutto ciò con la narrazione dell’innovazione, del “futuro” e del mondo digitale quotidianamente evocati con vuota e insistente retorica. Da un lato “parliamo” di questi temi con un’enfasi ogni giorno più insopportabile e, dall’altro, non muoviamo un dito per rimettere in piedi un mercato sempre più malato, datato e depresso.

Ecco, adesso possiamo tornare a parlare delle meraviglie del futuro che ci attende… O meglio, che continuerà ad attenderci, ahimè.

Postilla

Date un’occhiata a questo report dell’Unione Europea sul sistema di procurement pubblico in Italia. In particolare mi piace segnalare questo passaggio:

Italian public procurement law is strongly oriented towards formal elements without sufficiently taking into consideration the goals of public procurement, i.e. generating outcomes such as value for money for the public administration. This has resulted in a lengthy, complex and onerous procurement code, which contracting authorities and economic operators have difficulties to work with. The weakness of Italy’s procurement legislative framework has a twofold detrimental effect on the country’s performance. On the one hand, the complexity of the legal system has led to exemptions and loopholes, which in turn allow the infiltration of corruption and organised crime. On the other hand, Italy has one of the most stringent regulations of procurement below the EU mandated thresholds. Such cumbersome and inflexible rules are having a significant negative impact on procurement performance.

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