Vendere un sogno via robot: possibile o solo un sogno?

Chatbots Revolution: sì o no?

Ce lo stiamo chiedendo ormai da settimane, in un valzer andato dalla «scoperta» di Telegram e delle sue potenzialità lato business – nella integrazione e interazione di bots e canali e in un uso strategico delle sue features uniche, che la rendono #YouTelegram, Telegram Utile-Per-te, rievocando con ciò la Youtility, la utilità-per-te di Jay Baer – all’analisi del più globale fenomeno di quella che, appunto, è stata definita Chatbots Revolution, ove davvero innumerevoli sono divenuti articoli e post inneggianti all’alba di una nuova era, alla emersione di una nuova Terra dell’Oro, di una «Great Bot Rush», una «Corsa all’Oro dei Bot», «la Rivoluzione più grande dai tempi dell’iPhone». Ancora fino a due-tre settimane fa fiorivano titoli sentenzianti «Bot People – Mister Fin, Digit e Pana, un messaggino ci aiuterà», di Riccardo Staglianò su La Repubblica del 1° maggio, o sintesi potenti quali «Le App verticali sono morte, lunga vita alle chat bot», di Massimo Sideri per il Corriere della Sera il 20 aprile, o ancora «Welcome to the post-app world?», su TechCrunch il 30 aprile, dove il punto interrogativo andava solo parzialmente a mitigare la previsione delle «magnifiche sorti e progressive» spalancate innanzi al futuro di chatbots e #AI.

Poi, complice forse proprio l’invasione chatbots innescata dal loro avvento in Facebook Messenger, e dunque dalla loro accessibilità e potenziale diffusione a livello di massa, l’aria è cambiata un po’. L’ottimismo puro e semplice di una certa vision è stato sostituito, o almeno affiancato, dalla messa in discussione di quelle che apparivano certezze già acquisite. E proprio il Washington Post ammoniva: «The next hot job in Silicon Valley is for poets. Richiamando così l’attenzione sul fatto che è proprio tra i robot che ci vogliono poeti, per portar cioè a buon fine il processo che ha spinto ad avvertire l’esigenza di robot tra gli human beings. Evidentemente bots e robot da soli non bastano: «La sfida? Metter insieme assistenti virtuali ed esseri umani». Perché, allo stato attuale, «i nuovi bots di Facebook Messenger sono la via più lenta per usare internet», criticava già The Verge.

Lenti, insomma. Drammaticamente lenti. E alla fine, dunque, neanche tanto poi utili. Neanche tanto poi «rivoluzionari». O no?

È partito pure il filone nostalgico. Jared Newman su FastCompany quasi rimpiange i cari, vecchi bot di una volta – da ELIZA a SmarterChild – che avevano «più cuore di quelli attuali»: oggi semplicemente – nel bene e nel male – «un altro fra i tanti set di strumenti a disposizione dell’uomo», di cui questi potrà servirsi, che potrà «usare», ma con cui non potrà «chiacchierare e umanamente giocare». Che certo, insomma, non rimpiazzeranno gli uomini: nel bene e nel male. «Chiunque oggi si riempie la bocca parlando dell’ascesa chatbots, ma tutti dimenticano che gli uomini non son poi mica male», gli fa eco sul blog di Intercom Paul Adams. «I bots non rimpiazzeranno gli uomini». Almeno non così presto.

Luci e ombre, insomma, nella diversa lettura di una (possibile) #Chatbot Revolution. Il che non certo notizia sarebbe: al contrario, semmai, elemento da accogliere positivamente, come sano riequilibrio sui piatti della bilancia di peso e misura da dare alle cose. Anch’io, nel mio piccolo, sto maturando una vision precisa. Un’idea, come accennato qui giorni fa, sul se e perché sia possibile –  se non necessario – ipotizzare un domani, o magari già oggi, il «vender un sogno via robot» come segreto del nuovo Marketing, di un nuovo modello di business, il solo davvero vincente oggi, basato sull’Aiuto, sul Cuore – un #HeartMarketing, un #HelpMarketing che è #SellHelp, #SocialCare, Customer Care a 360°, in senso ampio e totalizzante, oltre la «semplice» assistenza tecnica al cliente, ove ci si mette in gioco e ci si fa in quattro pur di assicurare a chi si a di fronte una #CustomerExperience davvero memorabile.

Prima di tutto, però, un’altra riflessione: sulla «notizia della settimana». Quale? Che c’è chi c’è riuscito. «A far cosa?», dirai. A vender un sogno via robot. O, se non proprio di sogno vogliamo parlare, una bella, sana, positiva e costruttiva finzione… sì.

Di che parliamo? Di Jill Watson, un’assistente universitaria – come riportato da The Wall Street Journal e rilanciato poi, in un tam tam fattosi via via virale, da The Verge, The Washington Post e The Next Web«unica al mondo». Un’assistente, sì, ma «con gli attributi», verrebbe da dire, se tanto preziosa si è rivelata per Ashok Goel, professore d’informatica alla Georgia Tech. Che cosa, infatti, ha pensato di fare lo zelante docente per aiutar la propria classe durante la primavera? Niente meno che «assumere» una… collaboratrice davvero speciale: la Watson, appunto. Che non per tacchi a spillo e minigonna si è contraddistinta. Lei d’altronde era stata chiamata per lavorare online. E proprio online però, per tutto il semestre, la nostra Jill ha conquistato tutti col fare amichevole con cui si è messa a disposizione degli studenti, sempre pronta a rispondere alle loro domande, dubbi, quesiti vari: prodigandosi in risposte e spiegazioni finché tutto non fosse perfettamente chiaro.

I numeri poi non son mica da poco: 10.000 domande online a semestre. E lei lì, indefessa, sempre pronta a rispondere al meglio a tutti. I ragazzi ne sono rimasti folgorati. Quando mai era capitata un’assistente tanto competente e, al contempo, tanto sempre reperibile, sempre «disturbabile» a ogni ora, con la certezza di aver risposta alla propria domanda?

Nulla era però già questo così forte entusiasmo, rispetto alla «eccitazione», all’esaltazione stracolma di stupore e frenesia che ha contagiato questi giovani quando hanno appreso la realtà dal professore, dopo gli esami di fine corso. Non con un’assistente, infatti, avevano parlato per mesi: ma con un robot.

Tale era, infatti, la nostra Watson. Un «artificial intelligence bot», un chatbot implementato con Intelligenza Artificiale grazie alla tecnologia IBM’s Watson, segretamente inserito nel servizio di supporto alla classe dal bricconcello prof che proprio a un tal esperimento mirava: verificare se gli studenti si sarebbero accorti del fatto che, ad assisterli, non c’era qualcuno in carne e ossa, ma un robottino virtuale.

E invece macché. Tutti caduti dal pero. O quasi. A qualcuno alla fine il dubbio è venuto. In generale però l’esperimento è riuscito. «Mi sento parte della storia!», ha esclamato poi uno studente. «Proprio ora che la volevo eleggere come Teaching Assistant più eccezionale mai avuta finora!», ha detto un altro. «La conversazione con lei sembrava molto più normale che con un essere umano», ha dichiarato in particolare una studentessa, Jennifer Gavin. E un altro studente, Shreyas Vidyarthi, è arrivato persino a confessare di essersela sempre immaginata come una «amichevole 20enne caucasica come lui, che stava studiando, magari per il suo Ph.D.

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Machine learning

Ecco come si chiama il «fenomeno» cui siamo di fronte. Un altro perfetto settore di applicazione, ricco di potenzialità e opportunità di business, per chatbots e Artificial Intelligence. Esempio tanto più calzante, nel contesto di una chiarificazione del dibattito in corso, se riguardato alla luce di quanto ricordavamo sopra: «The next hot job in Silicon Valley is for poets» – accostamento di «poeti» e robot, letterati e chatbots, ove gli uni sono necessari agli altri proprio per plasmarne l’intelligenza virtuale e renderla meno «artificiale». Per svilupparne a pieno le potenzialità, ma con più cuore e meno odor di silicio: per renderli più «umani», a misura d’uomo, anche se mai sostituibili agli esseri umani.

In verità qui non di versi lirici, poemi e romanzi si è nutrita la nostra Jill per prepararsi al grande compito: ma di un attento studio, non meno impegnativo, delle domande e risposte scambiate nel semestre precedente fra studenti e assistenti. Su quelle la trovavi «skillata». Per possibili nuove tipologie di richieste, il bot era stato programmato in modo da rispondere solo qualora si fosse sentita confidente nel feedback da dare almeno al 97%. Il risultato è stato, come detto, grandioso: al punto da vedersi riconfermata nel ruolo per il prossimo semestre. Una «precaria di successo», insomma. Con un compito però ancora più difficile e sfidante stavolta: sorprendere altrettanto anche gli studenti che verranno. In bocca al lupo, verrebbe da dirle.

L’«in bocca al lupo» vero, però, va a tutta quella «forza lavoro» – fatta di human beings… – che in queste settimane ce la stanno mettendo proprio tutta per realizzar il sogno di «vender un sogno via robot»: per costruire bot con testa e cuore, «abbastanza umani» da sembrarlo, non «umani-troppo-umani» da esserlo.

Sì, perché c’è chi i romanzi li sta facendo leggere davvero ai propri «robottini artificialmente intelligenti». Come Google, che ha squadernato ben 2.865 libri e racconti ai propri strumenti di #AI, per rendere «le App più conversational», in grado di acquisire e riutilizzare poi il linguaggio più ricco e completo possibile. «Learning language from the language of love», ha titolato Buzzfeed riportando la notizia: imparare a parlare dalle parole del Cuore. Proprio queste sarebbero, infatti, le storie preferite da Andrew Dai e Oriol Vinyals, a capo del progetto, per educare I propri chatbots. Chiamati poi all’onere della prova. Nel training rientra lo scrivere, a propria volta, frasi e composizioni sull’onda di quanto imparato: in linguaggio umano, o comunque familiare agli esseri umani in carne ed ossa divoratori di romanzi d’amore. Arrivando quasi al punto di scrivere loro stessi un romanzo per intero.

«Sul serio?», dirai. «Teoricamente, potrebbero», ha dichiarato Dai. «Teoricamente», ha sottolineato però dubitoso, in voluto corsivo, Alex Kantrowitz  su Buzzfeed.

Non sarebbe d’altronde la prima volta. Come ricorda The NextWeb, rilanciando la notizia, già tre anni fa lo sviluppatore Darius Kazemi avviò il progetto NaNoGenMo, «National Novel Generation Month», per il «National Novel Writing Month», evento annuale che vede aspiranti autori in gara ogni novembre. Kazemi diede vita alla «storia» Teens Wander Around a House, basata su un gruppo di #AI bots  che si spostavano in una casa mentre il programma narrava le loro azioni: ogni volta che due personaggi finivano nella stessa stanza insieme, il programma estraeva tweet ad hoc da Twitter per creare una conversazione fra i due. Meglio ancora ha fatto un team della Future University Hakodate in Giappone, costruendo un programma di #AI che ha composto un romanzo, «The Day a Computer Writes a Novel», arrivando pure in finale in un contest davvero illustre, l’«Hoshi Sinichi Literary Award», con 1450 concorrenti. Il tutto, commenta ancora The Next Web, «mentre Tay di Microsoft se ne stava lì coi suoi commenti razzisti».

«Sì può fare!», verrebbe insomma voglia di gridare, ricordando gli esperimenti del Doctor Frankenstein – pardon, «Frankenstin» – con la sua creatura. Peccato che, ancora, non tutte le ciambelle riescano col buco.

«Voglio ammazzarti!», avrebbero finito, infatti, per esclamare alcune di quelle stesse #AI Apps di Google cui tante romanticissime storie d’amore erano state lette, e che però, anziché diventar novelli Romeo per la propria Giulietta, si sarebbero trasformati in «killer psicopatici». Quartz ha infatti riportato i primi risultati degli esperimenti condotti dal team di linguisti e computer scientists, contenuti nel documento inedito presentato il 3 maggio all’International Conference on Learning Representations. Dopo un lavoro che, nella sua interezza, ha contemplato il riversamento di ben 11.000 libri – inclusi 3.000 romanzi e 1.500 racconti fantasy – entro un modello di rete neurale, mirato a riprodurre il modo in cui lavora il cervello umano, si è mostrato cosa andasse a succedere inserendo due frasi estrapolate dai libri e chiedendo al sistema di generare frasi dotate di senso che conducessero, in progressione, dall’una all’altra. Ed ecco, appunto, l’amara sorpresa. In certi casi, per arrivare da una «frase romantica» all’altra, il sistema se ne usciva con un inaspettato «I wanted to kill him».

«C’è ancora molto lavoro da fare», ha ammesso il team, come riporta The Next Web rilanciando la notizia. E torniamo al punto di partenza.

Chatbot Revolution: sì o no? «Vender un sogno via robot»: possibile o… solo un sogno? 

C’è pure chi ci scherza: «I Bots? Non serve che passino il Test di Turing: basta quello della birra». Non occorre insomma che risultino per forza così «intelligenti» per essere davvero utili. Basta che ci si possa «andar a prendere una birra insieme»: ossia, fuor di metafora, che siano abbastanza smart e simpatici da crear le condizioni per una Customer Experience magari non proprio da sogno, ma certo il più soddisfacente e divertente possibile.

Il fattore tempo gioca un ruolo determinante. Non possiamo attenderci risultati strabilianti dall’oggi al domani. Anche le maggiori rivoluzioni richiedono maturazione. Non si tratta però qui di avere fretta: bensì di capire se strutturalmente e strategicamente sia questa la – o una delle – strade giuste.

Come già detto esiste (forse) la possibilità di costruir un paradiso, vero e non dorato, pur col silicio: comunque tanto splendido, «utile», col Cuore, che non potrai non volerlo comprare da me. Occorre però che il robottino virtuale sia «ben educato», dotato di un’Intelligenza (non troppo) artificiale, che insieme con gli esseri umani provi a riuscire là dove gli uomini hanno sbagliato o sbaglieranno: aiutare il cliente-amico, mettersi in gioco e a sua disposizione con tutto se stesso, cuore e testa, e solo così vendendo. #SocialCare, #SellHelp: un #HelpMarketing che, come detto, è il solo oggi a poter garantire una #CustomerExperience davvero memorabile – e con ciò il successo, anche e soprattutto nel business.

Come riuscirci? Qui sta il segreto, la vera corsa all’oro. E non conta solo l’avanzamento tecnologico: serve strategia, una vision più globale, davvero innovativa, entro cui reinquadrare ogni futura mossa. Quale? Ne riparleremo. Stay tuned…

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