Total Cost of Ownership: questo sconosciuto

Il Total Cost of Ownership (TCO), o Costo Totale di Possesso, è uno degli indicatori più abusati e bistrattati, e allo stesso tempo meno conosciuti, nel mondo dell’information technology. Nel corso degli anni, ha riempito la bocca dei top manager, che spesso non sapevano nemmeno di cosa stavano parlando, ma assumevano comunque un atteggiamento compunto mentre scandivano “ti si o”, lasciando cadere dall’alto le tre lettere, come se si trattasse di un segreto per iniziati.
Com’era ovvio, il TCO è diventato immediatamente uno dei cavalli di battaglia delle aziende del software proprietario nella loro guerra contro il software libero e open source. Questo perché si tratta di un indicatore caratterizzato da elementi soggettivi, per cui è facile da “personalizzare” in base agli obiettivi della ricerca, per dimostrare qualsiasi tipo di tesi.

Quindi, basta omettere, per esempio, il fatto – ormai ampiamente dimostrato – che il principale problema della conversione dei documenti sta nel formato non standard di partenza, estremamente diffuso ma anche intenzionalmente offuscato, per dimostrare che la migrazione da Microsoft Office a LibreOffice ha costi molto elevati. Peccato che questi costi, se il TCO venisse calcolato correttamente, dovrebbero essere attribuiti a Microsoft Office e non a LibreOffice. Oppure, basta sorvolare sul numero delle vulnerabilità, che nel caso di Microsoft Office è di almeno un ordine di grandezza superiore rispetto a LibreOffice, per evitare di calcolarne il costo. E se oltre al numero delle vulnerabilità si sorvola anche sul fatto che nel caso di Microsoft Office più dell’80% è legato al formato dei documenti, per cui questi sono il veicolo più utilizzato per la diffusione di malware (per gli amici: virus, e non solo), per “omettere” un costo estremamente significativo.

D’altronde, stando all’autore di una delle ricerche che “dimostrano” il vantaggioso TCO di Microsoft Office rispetto a quello di LibreOffice: “la gente ci dà dei numeri, noi applichiamo un metodo, e quello che esce esce”. E ancora: “le voci ‘conversione dei documenti’ (che si porta dentro, sia ben chiaro, anche i costi di modifiche alle decine di SW applicativi verticali usati dalle PA che fanno chiamate e interagiscono con strumenti di produttività individuale) sono assolutamente congrue e consistenti”.
Complimenti! Il metodo prevede anche la verifica dei dati, oppure – come è successo in un caso abbastanza esemplare – la stima del tempo “perso” per la conversione dei documenti è frutto di una valutazione “nasometrica”? Naturalmente, omettendo il fatto che i costi di riconversione dei software applicativi verticali sono costi di uscita da un formato non standard, per cui non vanno attribuiti a LibreOffice ma a Microsoft Office.

Intendiamoci, se Microsoft avesse svolto fino in fondo il suo ruolo di leader di mercato, e avesse educato gli utenti al valore dei formati aperti e standard (e si può fare: Adobe ha lanciato il formato aperto e standard PDF nel 1992, e ha consentito a tutti di sviluppare un lettore, mantenendo la fedeltà allo standard fino a quando il suo creatore John Warnock è rimasto in azienda) non avremmo avuto bisogno di uscire dal lock-in dei formati di Microsoft Office, e sarebbe stata tutta un’altra storia.
E invece, Microsoft ha scelto la strada opposta, e ha puntato sul lock-in. Purtroppo, ha continuato a farlo anche quando è stata costretta dalla storia – il Massachusetts aveva scelto lo standard ODF per tutti i documenti della pubblica amministrazione – a sviluppare un formato pseudo-standard per perpetuare la dipendenza degli utenti.
Fortunatamente, se in Italia la maggior parte degli utenti – a tutti i livelli, dalle aziende alle pubbliche amministrazioni – si nutre del TCO de noantri, all’estero c’è qualcuno un po’ più smaliziato che approfondisce il tema, e alla fine prende decisioni completamente diverse.

È il caso del Governo del Regno Unito, che nel 2014 ha scelto il formato aperto e standard ODF dopo aver analizzato a fondo il problema, sulla base di una serie di ricerche che hanno analizzato tutti gli elementi, a partire dal TCO per arrivare alle caratteristiche dei formati, in funzione dell’obiettivo di ridurre al massimo i costi di interoperabilità.

Nel caso del TCO è stata utilizzata una ricerca della London School of Economics, finanziata dal Cabinet Office e OpenForum Europe, insieme ad Alfresco, Deloitte, IBM e Red Hat.

È una lettura interessante, che consiglio anche a coloro che redigono le ricerche sul TCO commissionate da Microsoft. Perlomeno, sapranno fino a che punto possono spingersi nella loro interpretazione della realtà. Il TCO, infatti, pur essendo sconosciuto è una cosa seria, e fortunatamente c’è ancora qualcuno che lo tratta come tale.

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Laureato in Lettere all’Università Statale di Milano, è uno dei fondatori di The Document Foundation, la "casa di LibreOffice", nonchè portavoce del progetto a livello internazionale; è anche fondatore e presidente onorario della neonata Associazione LibreItalia. Ha partecipato ad alcuni tra i principali progetti di migrazione a LibreOffice, sia nella fase iniziale di analisi che in quella di comunicazione orientata alla gestione del cambiamento. Ed è autore dei protocolli per le migrazioni e la formazione, sulla base dei quali vengono certificati i professionisti nelle due discipline. In questa veste è coordinatore della commissione di certificazione. Come esperto di standard dei documenti, ha partecipato alla commissione dell'Agenzia per l'Italia Digitale per il Regolamento Applicativo dell'Articolo 68 del Codice dell'Amministrazione Digitale.

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