Trasparenza opaca: dal team Piacentini all’(in)foia tutto italiano

Trasparenza

La trasparenza dovrebbe essere il baluardo dell’era digitale, garantendo a tutti i cittadini accessibilità alle informazioni che riguardano la PA. Ci piacerebbe non dover usare il condizionale, ma di fatto queste affermazioni rimangono spesso slogan governativi inapplicati, come dimostrano un paio di recenti episodi.

Il primo. Circa una settimana fa è stato ufficialmente diffuso l’elenco dei professionisti entrati a far parte del team della trasformazione digitale, voluto dal commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale, Diego Piacentini, ex Vice Presidente di Amazon. Se già non ci aveva convinto il ricorso del Governo Italiano a un regio decreto del 1923, invece che all’attuale Legge Frattini, per la nomina del commissario straordinario Piacentini, rimaniamo decisamente perplessi davanti alla lista di nomi che scorrono davanti ai nostri occhi. Mentre alcuni sono ineccepibili, altri lasciano un po’ di stucco. Ma la domanda che sorge spontanea, direbbe qualcuno, è questa: che fine ha fatto la trasparenza? Temiamo seriamente per la sua sorte, a maggior ragione se nel Manifesto programmatico del team, pubblicato sotto l’elenco dei nomi, si inserisce come principio generale a cui attenersi, appunto, la trasparenza. Ma la trasparenza la si ottiene prima di tutto con l’esempio nei comportamenti amministrativi, piuttosto che con slogan dei quali – possiamo dirlo? – siamo un po’ tutti stufi.

Proviamo a spiegarci bene allora. Alla chiusura della selezione, il 13 ottobre 2016, i curricula pervenuti per la selezione del team della trasformazione digitale erano circa 3.500.

Forse non tutti rispondevano ai requisiti richiesti (padronanza della lingua italiana e inglese, comprovata esperienza in informatica, matematica e statistica, a cui si aggiungeva un’approfondita conoscenza sui temi della digitalizzazione) ma sarebbe stato utile conoscere e soprattutto rendere pubblici i criteri di selezione.

Non perché siamo cittadini curiosi e ci chiediamo, ad esempio, perché la responsabile comunicazione del team della trasformazione digitale sia, anche lei, fortemente legata ad Amazon, ma perché, di fatto, c’è una normativa che va rispettata (legge 241/90).

Infatti, qualunque tipo di selezione del personale per un pubblico impiego, che sia di tipo dipendente o un incarico per profili ad alta professionalità (per gli enti locali considerabili contratti a tempo determinato di diritto privato ai sensi dell’ex art. 110, comma 2 del TUEL e in generale inquadrabili come incarichi esterni ai quali l’amministrazione può ricorrere a condizione della insussistenza di adeguate professionalità interne, ex art. 7, commi 6 e 6-bis del d.lgs. 165/2001), dovrebbe essere necessariamente sottoposto a specifiche procedure, al fine di garantire trasparenza e sottrarre il governo del bene pubblico al pericolo della corruzione, secondo diritti che ci sono costituzionalmente garantiti.

Un duro colpo per la trasparenza amministrativa questo del team digitale, e probabilmente non l’ultimo in ordine di tempo, visto che l’ANAC ha pensato bene dal canto suo di girare il dito nella piaga del FOIA.

E passiamo così al secondo caso. L’Ente Anti Corruzione ha infatti pubblicato sul proprio sito web uno schema di “Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013”. Linee guida che non sono ancora definitive ma di fatto “suggeriscono” anziché regolamentare, “prorogano” gli adempimenti invece di imporre l’applicazione immediata della legge sulla trasparenza, “confondono” invece di chiarire le tipologie di accesso per i cittadini.

Come ANORC e altre associazioni (Community Facebook Trasparenza Siti Web Pa, Movimento Roosvelt, Spazio Etico) hanno avuto modo di puntualizzare durante la consultazione pubblica promossa dall’ANAC, le Linee guida predisposte dall’Autorità mancano di sufficienti esemplificazioni circa dati, documenti e informazioni a cui non è stato possibile accedere in passato e che, invece, potranno essere ora oggetto di accesso generalizzato. Queste esemplificazioni, infatti, sarebbero state di estrema utilità soprattutto per gli operatori pubblici chiamati a dare riscontro pratico alle istanze presentate dai cittadini ai sensi del FOIA, magari evitando che a istanze basate su presupposti simili siano date ai cittadini risposte diverse, e favorendo quindi la creazione di prassi condivise tra le diverse amministrazioni pubbliche.

Altra incoerenza palese: nelle Linee guida si prevede che ogni ente tenga un registro delle richieste di accesso presentate, ma non si impone la pubblicazione on line di tale registro nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito web dell’Ente: potrebbe dunque paradossalmente verificarsi che i cittadini ne possano conoscere il contenuto solo dopo aver effettuato una richiesta di accesso!

Questo non è certo migliorare la normativa italiana sulla trasparenza, questo è affidare il diritto e la libertà dei cittadini a lacciuoli burocratici e procedure contorte.

Così come confezionate, queste Linee Guida rischiano piuttosto di portare fuori strada. In effetti l’ANAC deve avere un pessimo senso dell’orientamento, se è riuscita a mancare l’obiettivo generale stabilito nel Terzo Piano di Azione per l’attuazione dell’Open Government: “evitare che l’operatività del nuovo istituto (FOIA) venga paralizzata da prassi amministrative conservative o da difficoltà interpretative sulle restrizioni al diritto di accesso”. Temiamo, però, che i funzionari della PA che nel mese di dicembre – stando ai programmi governativi – si troveranno a dover applicare l’istituto dell’accesso civico generalizzato, introdotto dall’art. 6 del D.Lgs 97/2016, si perderanno nel ginepraio di regole e adempimenti, prima ancora di inoltrarsi nell’esegesi delle nuove norme.

Resta ancora poco chiaro, infatti, come il FOIA, pensato come “strumento in grado di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, riesca a conciliarsi con il c.d. divieto di accesso esplorativo, tuttora prescritto dall’art. 24, comma 3, della Legge n. 241/1990: se l’accesso non è consentito per finalità di mero controllo della legalità dell’attività amministrativa (lasciando da parte, in questa sede, il dibattito giurisprudenziale sulla natura giuridica del diritto di accesso1), come potrebbe avere concreta applicazione l’accesso civico generalizzato consentito dal D.Lgs. n. 33/2013, che al contrario fa della trasparenza nel settore pubblico, della partecipazione civica e dell’accountability i suoi cavalli di battaglia?

L’impressione, non esattamente gradevole, che se ne ricava è che questa “casa di vetro” della pubblica amministrazione abbia tende molto pesanti. Da un lato si ribadisce la necessità di promuovere la cultura dell’amministrazione aperta tra dipendenti pubblici e cittadini, dall’altro si infilano in successione una serie di eccezioni all’accesso generalizzato che, sovrapponendosi alle ipotesi di diniego ex lege 241/90, potrebbero avere un clamoroso effetto frenante. Non serve essere politologi consumati, per indovinare che cosa accadrebbe se si mettesse un impiegato pubblico (anche più volenteroso della media) nelle condizioni di decidere se compiere valutazioni prodromico-comparative sugli effetti pregiudizievoli dell’accesso, in modo che interesse pubblico e privato siano equamente bilanciati, o, più facilmente, trincerarsi dietro divieti bizantini – vecchi o nuovi che siano – senza dover dare spiegazioni.

In un’epoca digitale la trasparenza si dovrebbe ottenere online, sempre e in ogni caso e quindi sarebbe stato sufficiente rafforzare i doveri di trasparenza on line già presenti nel D. Lgs. 33/2013 (che sono risultati invece indeboliti con l’introduzione del FOIA italiano).

La domanda che rimane è: fino a quando dovremo usare il condizionale?

1 Su cui si veda, da ultimo, la sentenza n. 3631/2016 del Consiglio di Stato

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