Ormai uso Twitter da 10 anni e sono convinta che non esista un modo giusto o un modo sbagliato per tuittare. Il mezzo cambia così velocemente all’evolversi della tecnologia e delle modalità di comunicazione che è difficile adattarsi altrettanto velocemente al cambiamento e, spesso, è ancora più difficile accorgersi che è avvenuto. Ma l’esperienza aiuta comunque a individuare e consolidare delle buone pratiche che, mantenute nel tempo, portano sicuramente a dei risultati.
Siccome sono altrettanto convinta che un’informazione non ha alcun valore se non è condivisa e non genera conoscenza, approfitto di questo spazio per svelarvi le buone pratiche che ho individuato e raccontarvi in 10 punti come uso Twitter nel mio lavoro.
- Difficilmente suggerisco link ad articoli di testate giornalistiche o a siti popolari, sono i più accessibili e diffusi. Piuttosto cerco di individuare contenuti di valore pubblicati in blog o siti meno noti, ma che possono apportare informazioni diverse o punti di vista alternativi.
- Per essere certa di proporre contenuti interessanti “tuitto” solo di ciò che conosco e questo è il motivo per cui, pur occupandomi di comunicazione scientifica, non suggerisco link di fisica, astronomia o di biologia. Se qualcuno rispondesse a uno di questi tweet, magari ponendomi qualche domanda, non saprei come argomentare una risposta perché di questi argomenti ho solo una scarna conoscenza.
- Quando osservo le dinamiche della comunicazione scientifica online mi dimentico di bere e di mangiare tanto l’argomento mi appassiona, ma non ho mai scritto nella mia Twitter bio la fatidica frase “appassionata di” perché, trattandosi del mio lavoro, per me è importante dichiarare che è un argomento del quale ho competenza professionale e non solo passione. Preferisco utilizzare questa frase per elencare i miei hobbies.
- Parimenti anche se ho una tendenza quasi maniacale alla precisione quando si tratta di parlare di comunicazione digitale della ricerca, evito come la peste parole come “talebana” o “maniaca di”. Quando provo la tentazione di affermare in modo rigido la mia posizione cerco di ricordarmi che il mio compito come comunicatore è quello di osservare e cercare di capire, non di prendere posizioni nette.
- Non ho una grande predisposizione per Facebook e ci scrivo molto di rado, ma quando lo faccio non condivido mai questi post su Twitter. Non lo faccio perché i miei follower di Twitter e di Facebook non sono gli stessi. Le due piattaforme sono molto diverse e lo sono anche le rispettive modalità di comunicazione, ma soprattutto sono diverse le persone che mi seguono e le motivazioni per le quali mi seguono. Come ho recentemente detto a una giornalista, mi aspetto che il parroco sul pulpito legga il vangelo e non il quotidiano che gli vedo leggere al bar. Per ogni luogo, anche virtuale, c’è un mezzo (e un contenuto) da usare, Facebook e Twitter non fanno eccezione.
- C’è un altro motivo per cui trovo che tuittare un link a qualche bacheca Facebook sia un’occasione persa. Sembrerà strano, ma non tutti hanno un account Facebook. Chi non ce l’ha non può visualizzarne integralmente i contenuti, nemmeno se si tratta di una pagina pubblica. Ma ci può essere anche chi scorre le notizie dello stream Twitter in ufficio e che, anche se ha un account Facebook, non può accedere al link perché l’azienda ha bloccato l’accesso al social. In ogni caso abbiamo impiegato del tempo per fornire un’informazione che non è accessibile a tutti.
It’s a pity to share Facebook posts on Twitter, people who don’t have a FB account (or can’t access FB from workplace) will never read them
— Cristina Rigutto (@cristinarigutto) 4 marzo 2017
- Faccio sempre attenzione agli hashtag che uso, soprattutto se compaiono nella bio. Prima di usare un hashtag ne controllo lo stream. Verifico per prima cosa che esista e sia attivo, inutile usarlo se non adempie alla sua funzione di catalogazione, o se l’ultimo tweet dello stream risale a qualche anno fa. Controllo anche la lingua dei tweet che appaiono nello stream dell’hashtag, molto spesso a una parola italiana corrisponde uno stream in lingua spagnola. Infine, evito l’uso di hashtag in inglese se il mio testo è in italiano, a meno che non si sia generata una comunità multilingue attorno a quell’hashtag, come nel caso di #scicomm o STEM. Sono anche molto ligia all’etichetta degli hashtag. Non uso hashtag pirata, ovvero non utilizzo un’etichetta -magari presa dai trending topic – per inserirmi in conversazioni con contenuti slegati dal contesto allo scopo di fare autopromozione. Uso gli hashtag delle chat solo quando la chat è in corso e solo se posso apportare valore alla discussione e, quando per un hashtag è previsto l’utilizzo in specifici giorni della settimana , non tuitto in giorni diversi da quelli calendarizzati.
- Uso molto i DM (messaggi diretti). A volte, quando mi preme diffondere una notizia, anziché taggare direttamente gli influencer nella speranza di un retweet invio loro un messaggio privato e con garbo scrivo che vorrei dare visibilità a quell’informazione, che spero anche loro la possano trovare interessante e mi aiutino a diffonderla.
- I bot mi infastidiscono. Quando vedo uno stream pieno zeppo di messaggi generati automaticamente da bot come: “Top influencer this week”, “Thanks for the follow”, “Thanks for the RT”, perdo immediatamente l’interesse. Non sono contraria ai messaggi, credo solo che si desidera ringraziare qualcuno lo si debba fare scrivendo personalmente il tweet (io lo faccio con un DM) e possibilmente nella lingua parlata dalla persone che andiamo a ringraziare.
- Ultimo punto, ma non meno importante, cerco la notizia nella notizia. Sono più interessata a tutti quei piccoli indicatori che mi suggeriscono che qualcosa sta cambiando nei flussi comunicativi che alla novità della notizia. Sapere che Opportunity il rover della Nasa scenderà in un dirupo per esplorare un canalone che si presume sia stato scavato da un corso d’acqua è importante, ma quando ho letto la notizia su Twitter quello che ha assorbito tutta la mia attenzione è stato l’uso di un pronome: “she”.
By gully, she’ll do it! https://t.co/Zw7AF2LiqV
— Curiosity Rover (@MarsCuriosity) 7 ottobre 2016
Quel “she”, lei, usato al posto di “it” – che in lingua inglese sta ad indicare gli oggetti inanimati – è un indicatore di cambiamento. Nasa, come già aveva fatto ESA con il lancio della campagna Rosetta, non solo umanizza i robot per coinvolgere emotivamente il pubblico, ma li fa diventare femmine rispondendo agli appelli di @AthenaSwan e delle campagne STEM tese a promuovere la parità di genere nel mondo scientifico. Quel “she” è la mia notizia nella notizia, mi dice dove e come inserirmi nelle conversazioni.
Ora che ho fatto “twitter outing”, spero che mi aiutiate ad implementare questo elenco con i vostri suggerimenti e con il racconto delle vostre buone pratiche, contribuendo così ad arricchire il patrimonio della conoscenza condivisa.
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