Da diversi anni autorevolissima dottrina discute sulla possibilità di un riconoscimento costituzionale del “diritto di accesso” ad Internet, qualificato ora come diritto di tipo personalistico, attratto nella sfera dell’art. 21 della Carta fondamentale, il quale si occupa della libertà di manifestazione del pensiero, ora come diritto più strettamente sociale e, dunque, rientrante tra le pretese soggettive a prestazioni pubbliche, al pari dell’istruzione, della sanità e della previdenza. Da altra parte è stato invece sostenuto che per introdurre tale diritto nel rango dei principi fondamentali del nostro ordinamento, sarebbe sufficiente una modifica degli articoli 2 e 3 della Costituzione, prevedendo un’espressa tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, “tanto nello spazio fisico quanto nel cyberspazio”.
È indubbio che le tecnologie moderne rappresentano, ormai sempre più, il veicolo attraverso il quale il singolo individuo svolge la sua personalità nel processo di interazione con il mondo esterno, con la inevitabile conseguenza che il giurista del terzo millennio deve andare costantemente alla ricerca degli strumenti che riescano a garantire la difesa dell’uomo nel mondo dominato da Internet. In uno Stato che possa dirsi pienamente rispettoso dei diritti e delle libertà garantiti dalla Costituzione, infatti, “la legittimazione sociale alla tecnologia deve essere sempre misurata con il metro della democrazia e del rispetto della persona” (Rodotà).
E il digital divide?
Quando si parla di diritto di accesso ad Internet non si può non parlare del diritto all’alfabetizzazione informatica, qualificabile anch’esso come un diritto sociale, e del correlato fenomeno del “digital divide”. Con questa espressione si intende una situazione di disparità che si crea tra coloro che sono in possesso delle conoscenze e delle dotazioni tecnologiche necessarie per una partecipazione attiva e consapevole alla Società dell’Informazione e quanti, invece, ne restano esclusi per motivazioni di ordine culturale e socio-economico.
La locuzione viene usata per la prima volta dal Presidente degli Stati Uniti Clinton e dal suo Vice, Al Gore, agli inizi degli anni Novanta. Da allora, il tema della diseguaglianza digitale è stato al centro di numerose analisi, volte ad analizzare il fenomeno sia a livello nazionale che globale, al fine di comprendere come meglio si possa agire per il suo superamento.
Il tema del digital divide è strettamente correlato a quello dell’esercizio dei diritti di cittadinanza nel contesto dell’Information and Communication Society. I principi enunciati nell’art. 1, “Carta della Cittadinanza digitale”, della Legge delega n.° 124/2015 (c.d. Legge Madia), hanno riconosciuto un allargamento della dimensione digitale degli ambiti in cui esercitare la cittadinanza, evidenziando che ogni cittadino, per essere incluso e attivo, sia formato e accetti l’impegno di essere competente digitale.
La “diseguaglianza digitale”, come visto, non discende solo dalle difficoltà tecniche di accesso alla Rete Internet, che coinvolge le fasce di popolazione più deboli economicamente, ma è conseguenza anche di quel particolare fenomeno culturale noto come “analfabetismo digitale”. Dunque, affinché il cittadino possa dirsi veramente libero secondo i dettami costituzionali di cui sopra è necessario che egli abbia innanzitutto la possibilità di utilizzare con piena consapevolezza gli strumenti tecnologici in suo possesso, ponendo particolare attenzione agli aspetti distorsivi degli stessi.
Cosa dicono i dati?
I dati recenti, purtroppo, rivelano la sussistenza di una situazione non felice. Dal quadro di sintesi che ci fornisce il Desi 2017 (Digital Economy and Society Index) emerge che l’Italia è al 24° posto per connettività e capitale umano, al 27° per l’utilizzo di Internet, al 19° per la digitalizzazione delle imprese ed al 21° per l’erogazione dei servizi pubblici digitali, ponendosi complessivamente, al 25° posto nel ranking europeo, cioè quasi alla fine della classifica, unitamente ai Paesi che solo da qualche anno hanno avviato le loro politiche statali in tema di ICT.
L’aspetto più preoccupante proviene proprio dall’ambito delle competenze digitali e dell’utilizzo di Internet da parte dei cittadini. Il Rapporto evidenzia che le prestazioni a rilento dell’Italia dipendono essenzialmente dagli utenti. Bassi livelli di competenze digitali comportano risultati mediocri in diversi indicatori: diffusione della banda larga, numero di utenti di Internet, partecipazione in una serie di attività su Internet (tra cui il Governo elettronico), uso del commercio elettronico e numero di curricula nel settore digitale (ossia, lauree in STEM – Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica – e specialisti delle TIC – Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione).
Anche il Rapporto Istat ―Cittadini, imprese e ICT – anno 2017, pubblicato il 21 dicembre scorso, evidenzia che più di una famiglia su due non usa Internet per mancanza di competenze. Pur se, infatti, oltre due terzi delle famiglie italiane dispone di una connessione a banda larga (69,5%), restano ancora ampi i margini di sviluppo per la diffusione e l’utilizzo del web. La maggior parte delle famiglie senza accesso ad Internet da casa indica la mancanza di competenze come principale motivo del non utilizzo della Rete (55,5%) e quasi un quarto (25,3%) non considera Internet uno strumento utile e interessante. Seguono motivazioni di ordine economico legate all’alto costo di collegamenti o degli strumenti necessari (16,2%) mentre l’8,6% non naviga in Rete da casa perché almeno un componente della famiglia accede a Internet da un altro luogo. Residuale è invece a la quota di famiglie che indicano tra le motivazioni l’insicurezza rispetto alla tutela della propria privacy (2,4%) e la mancanza di disponibilità di una connessione banda larga (2,9%).
Quali le azioni utili a favorire il Diritto di Accesso?
Si deve, quindi, partire dalla lettura di questi dati per chiedersi cosa si sta facendo oggi e, soprattutto, quali diverse azioni sia necessario porre in essere per cercare di avvicinare l’Italia alla media europea e migliorare le competenze di quella parte di popolazione che, in siffatte condizioni, rischia di essere vittima dell’emarginazione sociale, nella moderna connotazione “digitale”.
Di certo apprezzabili sono le novità legislative in materia di cittadinanza digitale introdotte dalla recentissima riforma del D. Lgs. 82/2005 – Codice dell’Amministrazione Digitale, avvenuta con la pubblicazione in G.U. del D. Lgs. n.° 217 del 13 dicembre 2017. Come ci spiega Fernanda Faini, l’art. 3 del nuovo Cad, “Diritto all’uso delle tecnologie”, declina il diritto di accesso alla Rete nell’ambito relativo ai rapporti con i soggetti pubblici, trattando più ampiamente di diritto all’uso degli strumenti tecnologici, che presuppone necessariamente anche il diritto di accesso ad Internet. L’art. 8 novellato, “Alfabetizzazione informatica dei cittadini”, invece, indica la espressa volontà del legislatore di diffondere tra i cittadini, con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione, non solo conoscenze e competenze informatiche, ma anche consapevolezza e conoscenza in merito al valore, alle opportunità, alle regole e ai rischi collegati all’utilizzo delle tecnologie.
I due articoli menzionati sono, dunque, strettamente correlati tra loro, in quanto la predisposizione di servizi on line risulta assolutamente inutile se i fruitori degli stessi non vogliono o non sanno come utilizzarli (Fioriglio).
Affinché le pur rilevanti novità legislative non rimangano delle mere prescrizioni programmatiche, occorre, però, che ad esse seguano delle azioni concrete di sostegno ai cittadini. Fondamentale è il ruolo svolto dalla Scuola italiana per la creazione e lo sviluppo delle competenze di cittadinanza digitale sia dei giovani che degli adulti.
L’alfabetizzazione informatica può essere considerata una componente essenziale del diritto all’istruzione, la cui garanzia e promozione rientra tra i compiti essenziali della stessa Repubblica in un’ottica di stretta correlazione con il principio dell’eguaglianza sostanziale (De Marco). Il diritto all’istruzione e allo sviluppo culturale informatico, del resto, era stato già ritenuto dalla Corte Costituzionale, con la nota sentenza n.° 307 del 2004, corrispondente a finalità di interesse generale, quale è lo sviluppo della cultura, specialmente attraverso l’uso dello strumento informatico. (T.E. Frosini).
Quale il ruolo della scuola?
La Scuola rappresenta un vero e proprio “laboratorio” che tende all’orizzonte del quadro delle competenze-chiave per l’apprendimento permanente (Ferrari, Troia) così come individuate dal Parlamento e dal Consiglio europeo, da cui la competenza digitale, in particolare, è definita come la capacità di saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della Società dell’Informazione.
Proprio per il raggiungimento degli obiettivi europei, nel 2015 il Miur ha elaborato il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), documento di indirizzo per l’innovazione della Scuola italiana, uno dei documenti strategico- operativi più lungimiranti e visionari della storia recente nel settore pubblico. Esso si basa e si sviluppa su indirizzi di grande consapevolezza sulla trasformazione digitale, fino all’affermazione che non di “scuola digitale” bisogna parlare, ma solo di “innovazione” nella scuola. Un piano da considerare certamente ambizioso, perché di rottura e di profonda innovazione rispetto alla cultura e alla prassi prevalente (Iacono).
A più di due anni dalla sua emanazione, però, la strada da percorrere risulta essere ancora in forte salita. Ne sono una prova i dati emersi dal recentissimo Report realizzato dall’OCSE sulla National Skills Strategy, pubblicati nel volume “OECD National Skills Strategy Diagnostic Report – Italy”, presentato lo scorso 5 ottobre scorso presso il Mef, in cui sono stati analizzati i processi di sviluppo delle competenze in Italia, strettamente connessi con il buon funzionamento del mercato del lavoro e la crescita del Paese. Anche quest’ultimo Rapporto sottolinea che, nonostante le recenti riforme in tema di innovazione e digitalizzazione, è necessario portare avanti delle azioni per la loro effettiva implementazione, concentrando l’attenzione sui bisogni degli stakeholders coinvolti.
Alla luce di quanto esposto, appare evidente la necessità di un grande impegno da parte di tutti gli attori coinvolti nel processo di innovazione digitale del nostro Paese affinché si possano superare le forti criticità che emergono dai dati statistici.
In tale contesto, il Framework europeo DIGICOMP (Digital Competence) costituisce uno strumento prezioso per il superamento del gap che ci separa dai più evoluti Paesi Europei in tema di competenze digitali. Si tratta di un quadro comune per le competenze digitali, punto di riferimento per le iniziative degli Stati membri volte a sviluppare e migliorare le competenze digitali dei cittadini. DIGCOMP, infatti, fornisce una definizione dinamica della competenza digitale che non guarda all’uso di strumenti specifici, ma ai bisogni di cui ogni cittadino della società dell’Informazione e della Comunicazione è portatore, come il bisogno di essere informato, di interagire, di esprimersi, di ricevere protezione, di gestire situazioni problematiche connesse agli strumenti tecnologici e agli ambienti digitali.
L’Europa, dunque, ci richiama ad azioni concrete per il superamento del digital divide; si potrebbe partire, ad esempio, dal rafforzamento degli investimenti destinati al sistema scolastico, che ha sicuramente il compito più importante e delicato: trasmettere la “conoscenza” ai futuri cittadini “digitali”, anche attraverso l’utilizzo di nuovi e sperimentali modelli di apprendimento, che siano al passo con l’inarrestabile evoluzione tecnologica della nostra Società.
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