Il digitale è sempre più presente negli studi professionali italiani: nel 2017 la spesa in tecnologie ICT di avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro italiani, ha raggiunto la cifra di 1.172 milioni di euro, con una crescita del 2,6% rispetto ai dodici mesi precedenti, trainata soprattutto da investimenti per l’adeguamento a obblighi normativi. Ma una buona parte degli studi si serve del digitale anche come leva per innovare i servizi, migliorare l’efficienza dei propri processi lavorativi e la relazione con la clientela: l’80%, infatti, dispone di un archivio almeno in parte digitale, quasi uno studio su due (il 46%) è sul cloud e il 27% gestisce i rapporti con i clienti attraverso strumenti digitali, anche se sono ancora minoritari gli studi che utilizzano le tecnologie più di frontiera, come Artificial Intelligence e Business Intelligence. Le tecnologie più adottate sono firma digitale (97%), fatturazione elettronica (42%) e software per le videochiamate (36%).
Quasi quattro studi su dieci (38%) si sentono tecnologicamente pronti per il futuro, mentre il 60% ritiene la propria dotazione hitech adatta alle esigenze attuali ma teme che sia inadeguata in previsione futura. E infatti soltanto il 2% degli studi non ha investito in tecnologia nel 2017. Nonostante un calo del 14% rispetto al 2016, sono ancora gli studi multidisciplinari a stanziare i budget più consistenti per l’innovazione, con una spesa media di 14.100 euro, seguiti da commercialisti (8.800 euro, +1,6%) e consulenti del lavoro (stabili a 8.700 euro). Gli avvocati sono la categoria che spende di meno (5.300 euro), ma anche quella che registra la crescita di spesa più significativa (+15%). Gli studi più interessati agli investimenti ICT si trovano nel Nord Italia: quasi uno su quattro (il 23%) spende più di 10mila euro, contro il 15% al Centro e il 5% al Sud.
Il fermento digitale nel mondo delle professioni è testimoniato anche dall’ingresso di nuove imprese innovative nel settore: sono 405 le startup individuate a livello internazionale che offrono soluzioni in questo settore, che impattando prevalentemente sugli studi legali (40%), con sede principalmente negli Stati Uniti e in Europa, per un finanziamento complessivo di quasi 1,5 miliardi di dollari e un investimento medio di circa 3,6 milioni di dollari. Fra queste, 18 sono italiane.
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano.
“La digitalizzazione sta imponendo nuovi modelli di sviluppo per gli studi professionali e il mondo delle professioni giuridiche sta reagendo positivamente, aumentando la spesa per il secondo anno consecutivo di oltre il 2%, una percentuale superiore a quella delle imprese, ferme all’1,9% – analizza Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. Accanto a una minoranza crescente, che ormai da due anni rappresenta il 30% degli studi, in grado di sfruttate le nuove tecnologie per innovare i servizi, i processi interni e la relazione col cliente, ci sono ancora molte realtà che stentano ad avviare modelli organizzativi e di business innovativi. Pur con velocità diverse, tuttavia, la conoscenza di base sull’uso delle tecnologie digitali è senz’altro aumentata negli ultimi cinque anni in tutti gli studi professionali”.
“Le tecnologie più diffuse negli studi professionali sono ancora prevalentemente “law driven”, cioè imposte dalla normativa e indispensabili per svolgere l’attività professionale – afferma Elisa Santorsola, Co-Direttrice dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. Gli strumenti digitali col potenziale innovativo più elevato, come Artificial e Business Intelligence, sono ancora utilizzati solo da una quota minoritaria di studi, e anche l’elevato interesse verso altre tecnologie digitali meno di frontiera raramente si trasforma in un acquisto nel biennio successivo. A fare la differenza nel processo d’innovazione è l’abilità di elaborare una strategia e realizzarla secondo un progetto ben definito, ma mediamente gli studi appaiono un po’ carenti nella capacità di concretizzare i progetti di innovazione, perché le attività tradizionali assorbono ancora la maggior parte delle loro risorse”.
Le previsioni
Il crescente interesse degli studi professionali per le nuove tecnologie trova conferma anche nelle previsioni di spesa nel 2018 elaborate dall’Osservatorio, che stimano una crescita degli investimenti ICT nel prossimo anno del 3,8%, per un valore di 1.217 milioni di euro. Gli studi che prevedono il maggior incremento del budget dedicato all’innovazione sono quelli multidisciplinari (che lo aumenteranno nel 44% dei casi), seguiti da commercialisti (43%), consulenti del lavoro (29%) e avvocati (25%). I legali, oltre a stimare l’aumento di spesa più contenuto, sono anche i professionisti che prevedono la maggior riduzione degli investimenti (12%, fra questi uno su quattro diminuirà il budget di oltre il 50%), mentre soltanto il 5% di commercialisti e studi multidisciplinari e il 6% dei consulenti del lavoro diminuiranno la spesa ICT nei prossimi dodici mesi.
I fattori che spingono gli investimenti ICT sono soprattutto gli obblighi normativi (per oltre il 50% degli studi), la ricerca di efficienza dello studio (mediamente per il 60%) e la volontà di introdurre nuovi servizi e strumenti per i propri clienti (in media per il 50%). I principali ostacoli all’incremento della spesa digitale indicati dagli studi sono invece la mancanza di agevolazioni o finanziamenti (47%), l’indifferenza dei clienti per i nuovi servizi offerti dagli studi (circa il 35%) e l’assenza di richiesta di innovazione da parte dei clienti (circa il 30%).
Le tecnologie
La ricerca rivela come gli studi professionali si concentrino sulle tecnologie imposte dagli obblighi normativi e su quelle necessarie a svolgere le attività lavorative, in particolare la firma digitale (la usa il 97% degli studi), la Fatturazione Elettronica (42%), i software per le videochiamate (36%), il sito web (34%) e le piattaforme di e-learning (28%), mentre stentano a decollare quegli strumenti, come Artificial Intelligence (2%) e Business Intelligence (3%), che potrebbero supportare l’offerta di nuovi servizi. Le tecnologie che invece suscitano il maggior interesse sono la conservazione digitale per i clienti e lo studio (indicata dal 38% del campione), la fatturazione elettronica (37%), la gestione elettronica documentale (32%), il sito web (30%) e il portale, o extranet, per la condivisione di documenti con clienti, colleghi o fornitori (28%).
Cresce l’uso del cloud, con il 46% degli studi che si serve di sistemi a supporto dei principali processi lavorativi che sono almeno parzialmente sulla nuvola (+28% rispetto alla ricerca precedente). In particolare, il 20% usa sistemi completamente o quasi sul cloud, il 26% usa sistemi parzialmente sulla nuvola, un altro 27% afferma che l’introduzione di soluzioni cloud rientra in un progetto da realizzare, nel 19% degli studi non sono presenti queste soluzioni e non c’è interesse a introdurle in futuro, mentre il 7% non è informato. I principali applicativi in cloud sono la mail/Pec (nel 43% del campione che usa il cloud), l’archivio documenti (33%), la fatturazione elettronica (45%), il gestionale (34%) e il PCT (27%). Le singole professioni ricalcano la stessa distribuzione, tranne che per gli avvocati, dove il gestionale di studio è ancora poco presente e anche quello in cloud è sotto la media delle altre professioni (20% degli avvocati contro oltre il 34% per le altre professioni).
La gestione dell’archivio documentale è una delle attività degli studi in cui la staffetta fra soluzioni tradizionali e soluzioni digitali è più evidente: nonostante solo il 4% abbia una gestione completamente digitale dell’archivio e ancora il 20% usi prevalentemente la carta, ben il 62% ha un doppio archivio, cartaceo e digitale, e il restante 14% gestisce i documenti principalmente in forma digitale.
La ricerca di nuovi clienti è un altro aspetto in cui convivono strumenti digitali e “analogici”, con i secondi che sono ancora nettamente i più utilizzati: il 93% del campione, infatti, indica nel passaparola il principale canale di provenienza di nuovi clienti (è invece il canale secondario per il 13%); seguono la partecipazione dei professionisti come relatori a eventi esterni (per il 13% è la fonte principale, per il 26% quella secondaria) e le azioni dirette dello studio come mail, telefonate e pubblicità (principale per il 9%, secondaria per il 39%). Ma assumono un peso rilevante anche i social network, che il 10% degli studi considera la principale fonte di nuovi clienti e il 27% quella secondaria, e i marketplace digitali, che sono la fonte principale per il 3% degli studi e quella secondaria per il 15%.
Le modalità tradizionali sono le più diffuse anche nella relazione col cliente. Quasi tre studi su quattro (73%) gestiscono il rapporto con la clientela attraverso incontri, telefonate e mail; i rimanenti comunicano digitalmente ma in maniera monodirezionale attraverso mail, portale documenti e newsletter (11%) o utilizzando strumenti digitali bidirezionali come chat, social network e portali per collaborare su attività (15%), mentre soltanto una quota minoritaria (1%) costruisce una relazione multicanale.
La gestione e l’innovazione di alcune delle attività degli studi, fra cui quelle più legate alle nuove tecnologie, sono influenzate dalle ridotte dimensioni degli studi, che costringono a concentrare una buona parte delle responsabilità nelle mani del titolare dello studio. La maggior parte delle attività degli studi è responsabilità del titolare in almeno il 50% dei casi, con punte del 67% per la programmazione della formazione per dipendenti e professionisti, del 65% per la gestione dell’innovazione, del 63% per la gestione dell’infrastruttura informatica e del 60% per la gestione della sicurezza informatica. Queste ultime sono le attività che più spesso vengono delegate a un consulente esterno (rispettivamente nel 20% e nel 27% dei casi), mentre per tutte le attività raramente è prevista la delega a un dipendente dedicato (1% o meno).
La fatturazione elettronica
Quest’anno la ricerca ha interrogato gli studi professionali italiani sull’impatto della normativa che ha reso obbligatoria la fatturazione elettronica verso la PA. Dai risultati dell’indagine emerge che oltre il 60% degli studi di natura commercialista o multidisciplinare ha gestito questo adempimento. In particolare, gli studi si sono attrezzati per fornire ai clienti questo servizio acquisendo un software dedicato (44% dei commercialisti e 47% degli studi multidisplinari), rivendendo il servizio di altri soggetti (24% dei commercialisti e 21% degli studi multidisciplinari) o emettendo loro stessi la fattura in quanto fornitori della PA (9% dei commercialisti e 12% degli studi multidisciplinari). Nel 13% dei casi nessun cliente di commercialisti e studi multidisciplinari ha richiesto il servizio, mentre il 9% dei commercialisti e l’8% degli studi multidisciplinari hanno deciso di non offrire questo servizio.
L’obbligo di attuare la fatturazione elettronica B2B a partire dall’1 gennaio 2019 viene accolto in modo diverso dalle singole professioni, anche se sono accomunati da una generale indecisione su come reagire al nuovo adempimento (29%% degli studi). Gli avvocati lo percepiscono come un adempimento da dover svolgere, ma ancora non sanno come comportarsi (26%) o non sono informati a sufficienza (19%). Quasi sei commercialisti e studi multidisciplinari su dieci (58% e 59%) hanno intenzione di offrire questo servizio ai propri clienti (percentuale che scende al 40% fra i consulenti del lavoro), oltre il 60% degli studi di commercialisti e multidisciplinari pensa che più di metà dei propri clienti avrà bisogno di aiuto su questo fronte e più di uno su due (52% e 57%) pensa che meno del 25% dei clienti sarà autonomo per la fattura elettronica fra privati.
Le startup
Sono 405 le startup analizzate dall’Osservatorio a livello nazionale e internazionale, nate fra il 2012 e il 2017 e che hanno ricevuto almeno un finanziamento dal 2013, che offrono soluzioni che impattano sulle attività dei professionisti, fra cui 18 sono italiane. Gli Stati Uniti sono l’area a più alta densità di nuove imprese innovative (il 56% su un campione di 386 startup) e si collocano al primo posto anche per finanziamenti ricevuti (54,7%), seguiti da Europa (col 29,8% delle startup e il 29,4% di investimenti ottenuti), Asia (9,8% di nuove imprese e il 15% di fondi), Oceania (3,6% di startup e 0,8% di risorse stanziate) e Africa (0,8% delle startup e 0,1% di finanziamenti). Se però si considera l’investimento medio raccolto dalle singole startup è l’Asia a guidare la classifica, con circa 5,7 milioni di dollari di investimento medio, seguita dall’Europa (circa 3,7 milioni), dagli USA (poco al di sotto di 3,7 milioni) Oceania (quasi 900mila dollari) e Africa (circa 400mila dollari).
A raccogliere più finanziamenti sono le startup che impattano su tutte le tipologie di studi, sia complessivamente (circa 660mila dollari) sia in media (quasi 5,5 milioni di dollari), seguite dalle aziende innovative che propongono soluzioni per le attività svolte dagli avvocati (375 milioni complessivi, ma penultime per investimento medio con circa 2,3 milioni), dai commercialisti (364 milioni complessivi, in media 4 milioni a startup), dai consulenti del lavoro (quasi 200 milioni complessivamente, secondi per finanziamento medio con 4,7 milioni) e infine dai notai (53 milioni complessivi e quasi 2 milioni di investimento medio).
Per quanto riguarda l’ambito applicativo, le soluzioni più finanziate sono quelle relative ai servizi (quasi 700 milioni di investimento complessivo e al secondo posto per finanziamento medio con 3,5 milioni di dollari), poi viene l’ambito processi (644 milioni complessivi, ma al primo posto per investimento medio con 4,5 milioni), e per ultime le soluzioni che riguardano i canali (112 milioni raccolti globalmente e quasi 1,8 milioni di finanziamento medio).
La maggior parte delle startup fornisce servizi che impattano sulle attività legali (40%), seguono le imprese innovative che realizzano soluzioni trasversali su più professioni (30%), startup per le attività dei commercialisti (22%), dei consulenti del lavoro (10%) e dei notai (7%). In un caso su due (49%) le soluzioni offerte dalle startup si concentrano su servizi come la consulenza legale, la proprietà intellettuale, la compliance, il recruiting e l’accounting; il 35% punta a migliorare i processi degli studi come la security, la gestione documentale e il workflow; il 16%, infine, cura di più gli aspetti legati ai canali che gli studi usano per raggiungere nuovi potenziali clienti come i social network e i marketplace. Due terzi delle startup analizzate (65%) aiutano gli studi professionali nella relazione col cliente (22%), nel miglioramento dell’efficienza interna (37%) e nell’apertura di nuovi business (6%), mentre il 35% offre soluzioni che portano a una disintermediazione fra l’utenza e i professionisti.
Sono 18 le startup italiane, di cui otto finanziate per un totale di 8,6 milioni di dollari raccolti e un investimento medio pari a quasi 1,1 milioni di dollari. Una startup italiana su tre (7) offre soluzioni trasversali alle diverse professioni, le categorie più servite sono commercialisti (4) e avvocati (5), le rimanenti servono i consulenti del lavoro (2). I canali sono l’ambito su cui convergono più startup, con ben 8 realtà che forniscono soluzioni legate alla gestione dei marketplace, seguito dai servizi (7), come l’accounting (4), il recruiting (2) e la proprietà intellettuale (1), e da soluzioni che puntano a migliorare i processi interni come il workflow (1) e la gestione documentale (2). La maggioranza delle startup (14) offre soluzioni di supporto agli studi, con un’offerta indirizzata a migliorare la relazione con i clienti (6), a incrementare l’efficienza interna (4) e a esplorare nuovi business (4), mentre 4 si configurano come un fattore di disintermediazione fra utenza e studi professionali.
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