Gucci e il maglione razzista: ma il vero Fail sono le scuse del brand

Cosa ci si aspetterebbe da qualcuno che deve scrollarsi un’accusa piuttosto pesante come quella di essere tacciati di razzismo? Come minimo ci si immagina che la prima preoccupazione sia quella di parlare chiaro e tondo, rigettando le accuse, ripetendo proprie ragioni fino allo sfinimento.
Sembrerebbe una strategia ormai data per scontata, specialmente sul web, dove le conversazioni si moltiplicano e vanno sempre più veloci e per questo è necessario assicurarsi che tutti abbiano recepito il messaggio forte e chiaro.

Eppure questo non è stato abbastanza chiaro per Gucci, che nei giorni scorsi si è trovata al centro dell’ennesima polemica per un capo di abbigliamento considerato offensivo dal pubblico. Tutto è cominciato con un maglione: un maglione in lana nera, in vendita sul sito statunitense della maison fiorentina. Un modello da donna con un collo alto fino quasi a diventare un mezzo passamontagna, e un’apertura all’altezza della bocca circondata da quelle che sembrano due labbra rosse.

Foto via: washingtonpost.com

In breve tempo il maglione ha attirato l’attenzione: troppo stretta la somiglianza con i “Pradamalia” ritirati dal mercato da Prada meno di due mesi fa, e troppo recente la polemica che quei ninnoli griffati avevano scatenato per non rendersi conto che si era di fronte all’ennesimo “scivolone” di una casa di moda che cade in un’anacronistica quanto imbarazzante “citazione” del blackface.

Il tema è caldo e delicatissimo: il blackface è sempre stato connotato come derisorio e offensivo nei confronti delle persone di colore, e oggi viene considerato un vero e proprio insulto razzista. Come si possa non esserne consapevoli al punto di costruirci sopra un capo di abbigliamento o un’intera collezione di moda resta un mistero. Eppure è successo: due griffe di fama mondiale in meno di due mesi.

Così quel maglione, che probabilmente era in vendita sul sito di Gucci già da diverso tempo, è stato notato nel bel mezzo del Black History Month, che negli Stati Uniti viene celebrato durante tutto il mese di febbraio per ricordare la diaspora africana, i personaggi storici, le tappe fondamentali verso la conquista dei diritti civili da parte degli afroamericani.

E bastano pochi tweet ben assestati per scatenare la polemica:

“Maglione passamontagna di Gucci. Buon Black History Month a tutti.” (Twitter)

Ventiquattro ore e qualche migliaio di tweet più tardi, Gucci decide di togliere dal mercato quel maglione.

E qui comincia un’insensata gestione della comunicazione sui social: Gucci, infatti, pubblica un comunicato ufficiale in cui chiede scusa per l’offesa causata dal suo capo d’abbigliamento e annuncia di averlo ritirato dal proprio store online e da tutti i negozi Gucci sparsi per il mondo. Segue poi un sobrio messaggio in cui si afferma come la maison di abbigliamento di lusso consideri la diversità «un valore fondamentale da sostenere, rispettare e al centro di ogni decisione» presa dal brand.

Twitter

Per qualche strano motivo, però, il comunicato viene pubblicato solo su Twitter, lasciando inspiegabilmente “scoperti” le altre piattaforme social, dove la maison naturalmente è attiva e molto seguita.

Potrebbe trattarsi di una decisione strategica? Evitare di “svegliare il can che dorme” visto che la polemica era in qualche modo “confinata” su Twitter e non ha raggiunto gli altri social? Purtroppo non è così: basta guardare le pagine Facebook e Instagram di Gucci:

facebook.com/GUCCI

In assenza di uno specifico post da commentare, gli utenti hanno semplicemente “invaso” tutti i post disponibili, andando a “ingigantire” la polemica.
Lo stesso succede su Instagram:

instagram.com/gucci/

Se Gucci avesse voluto evitare di “sporcare” i suoi profili social con le proprie scuse alle accuse di razzismo ha fatto male i suoi conti: è impossibile arginare le conversazioni che nascono online, e pensare che una polemica possa restare all’interno di un singolo social è ingenuo, oltre che molto pericoloso per la gestione dell’immagine del proprio brand.

Infatti, un utente che segue un brand su Instagram potrebbe non seguirlo su Twitter: agendo come ha agito Gucci il risultato è che per il pubblico di Instagram Gucci non ha mai preso una posizione in merito all’accaduto. Lo stesso vale per Facebook, dove gli utenti hanno essenzialmente fatto quello che avrebbe dovuto fare Gucci: parlare di quanto successo. Solo che, non avendo “accesso” al comunicato dell’azienda, la conversazione si è svolta prevalentemente a senso unico.

E non si può nemmeno “accusare” gli utenti di essere scarsamente informati: certo, chi fosse stato realmente interessato alla risposta di Gucci l’avrebbe trovata senza troppi sforzi, ma non è così che si gestisce una crisi d’immagine in un mondo frammentato – eppure naturalmente interconnesso – come è il web. Da una parte non si può pensare di poter “nascondere la polvere sotto al tappeto” per non rovinarsi la vetrina, dall’altra non si può pretendere che sia il pubblico a venirci a cercare quando abbiamo qualcosa da dire. Specialmente se questo “qualcosa” è legato a qualcosa di scomodo per il brand.

Lesson Learned: Quando devi prendere la parola, per fare un annuncio o chiarire la tua posizione, fallo in tutti i luoghi in cui sei presente. Quando i pubblici sono frammentati, è necessario raggiungerli tutti: non puoi pensare che sia il pubblico a venirti a cercare, specialmente se si è già fatto una sua idea.

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