“Il futuro è privato”. Al di là dell’integrazione tra il Social Network Site ed i due sistemi di Instant Messaging Message e Whatsapp (sì: quell’integrazione che era stato promesso non sarebbe mai avvenuta), a una non secondaria apertura (già annunciata diverse volte) al dating e ad alcune significative modifiche all’interfaccia di navigazione, questo è forse ciò che più rimane dell’ultima #F8 Facebook Conference: la dichiarazione di Mark Zuckerberg secondo la quale il futuro di Facebook è nel supporto allo sviluppo di contesti e strumenti di comunicazione “chiusi” tra gruppi di persone rispetto all’attuale timeline pubblica.
Da una parte logica ed inevitabile conseguenza di una dinamica di sviluppo finalizzata ad incrementare la densità del grafo della piattaforma (una volta portati tutti in piazza, per creare valore è necessario farli entrare nei bar e parlare tra loro), dall’altra risposta funzionale alla crisi di credibilità collegata alla privacy degli utenti nel complesso periodo del “dopo” Cambridge Analytica, l’affermazione di Zuckerberg non è certo così inaspettata.
Tuttavia, rischia di sviluppare un’ulteriore cortina di fumo su quello che è il nodo principale che non solo riferito a Facebook ma a tutti gli attori della platform economy si dovrà affrontare: privati o pubblici che siano, di chi sono i dati che vengono prodotti dall’analisi dei comportamenti degli utenti, e come è lecito utilizzarli? Ogni volta che leggiamo un post diciamo qualcosa di noi. Ogni volta che usiamo una reaction per commentarlo diciamo qualcosa di noi. Ogni volta che rilanciamo un contenuto diciamo qualcosa di noi. Ogni volta che ci colleghiamo con qualcuno diciamo qualcosa di noi. Per ogni minuto che passiamo su una qualsiasi delle piattaforme che utilizziamo – social o meno social che siano – addestriamo un’intelligenza artificiale a conoscerci un po’ meglio. E con lo sviluppo esponenziale dell’internet delle cose tra smartphone, smartwhatch, smartcar e smartwhathever ogni battito del nostro cuore, ogni traccia del nostro sguardo, ogni reazione – concreta o emotiva che sia – entrerà a far parte degli input attraverso i quali addestrare intelligenze artificiali sempre più pervasive e presenti.
Il punto quindi non è solo (o prevalentemente) quanto siano rese pubbliche o mantenute ristrette a cerchie più limitate di persone le informazioni che gli utenti volontariamente condividono (al netto di false percezioni di riservatezza che ciò genera), ma soprattutto che uso faranno gli attori che gestiscono tali dati delle informazioni disponibili e della conoscenza degli utenti che da esse deriva.
Il punto quindi non è solo (o prevalentemente) definire cosa le piattaforme possano o debbano condividere, e come, ma determinare cosa sia lecito, opportuno e socialmente accettabile che le piattaforme abbiano a disposizione dei propri utenti. Insomma: che il futuro di Facebook sia privato o pubblico (e con esso di tutti i suoi epigoni) è solo parte del problema. Problema che non è tanto nel definire i limiti del tecnicamente possibile nelle pratiche di condivisione e uso dei dati, ma quanto del loro uso legittimo e socialmente accettabile. Limite per la cui definizione non basta una legge, né un provvedimento di un singolo Stato, ma è necessaria una riflessione condivisa ben più amplia. Serve lo sviluppo di consapevolezza trasversale a tutti gli attori in gioco, è fondamentale l’identificazione di paradigmi alternativi che vedano nelle piattaforme, prima che dei nemici, gioco forza degli alleati in una riflessione dai risultati della quale non dipenderà solo il loro futuro, ma quello della società nella quale viviamo.
Ad oggi, naturalmente, non ci sono risposte preconfezionate, ma iniziano ad esserci modelli e scenari di possibili futuri. Si pensi, ad esempio, al cooperativismo di piattaforma. Il termine platform cooperativism, coniato negli anni scorsi da Trebor Scholz, fa riferimento ad una nuova possibile concezione del ruolo delle piattaforme nella quale, semplificando all’estremo, la gestione dell’infrastruttura, così come dei dati, siano democratiche e condivise. Più o meno come accade in una cooperativa. Insomma: se Uber fosse una piattaforma cooperativa i dati veicolati in essa non sarebbero di Travis Kalanick e Garrett Camp ma di tutti i suoi driver. Uno scenario in cui il prossimo Facebook potrebbe essere una sorta di cooperativa di consumo, ove il valore generato dagli utenti potrebbe essere redistribuito verso gli utenti stessi, che ne sarebbero i soci.
Un futuro possibile?
Certo difficile, ma non del tutto utopico. Ma soprattutto un futuro per guardare al quale servirà avere il coraggio di ripensare schemi interpretativi che diamo per consolidati. Negli esempi di platform cooperativism che si stanno sviluppando qua e là nel mondo stiamo assistendo troppo spesso allo stesso fenomeno che ha rischiato e sta rischiando di annichilire il vantaggio reale della sharing economy. Così come sin troppe volte operatori di servizio con modelli di business del tutto tradizionale si sono “vestiti” di sharing economy per motivi di marketing e comunicazione (si pensi ad Uber, Tripadvisor, persino AirBnB), allo stesso modo molte aziende stanno calcando la strada del platform cooperativism sfruttandone l’afflato valoriale, ma senza comprenderne realmente le dinamiche.
Estremizzando un po’ (ma non troppo): non basta essere una cooperativa per dire che la propria piattaforma è una piattaforma cooperativa. Serve ben altro. Serve ripensare il proprio modello di business, per far sì che il valore generato sia effettivamente condiviso con gli utenti sulla base di una value chain realmente cooperativa. Serve ripensare la propria infrastruttura tecnologica per scegliere soluzioni realmente distribuite, nelle quali la piattaforma centrale possa essere superata da approcci peer2peer abilitati da tecnologie che lo consentono (ed in questo, ad esempio, il ruolo di soluzioni come quelle basate su blockchain potrebbe non essere secondario). Serve – e questo non può essere certo il compito di una singola azienda – sviluppare un ecosistema normativo nel quale si riconcepisca il ruolo dei dati degli utenti sia per quanto riguarda la loro proprietà che la loro gestione.
Insomma, per un futuro nel quale il ruolo delle piattaforme muti così significativamente al punto da trasformarle in risorsa per la società, la scommessa è nella nostra capacità di ripensare il senso di interi contesti sociali e di business, di rivedere il ruolo della tecnologia, di supportare i legislatori nello sviluppo di norme la cui prospettiva interpretativa veda nella cooperazione e nella costruzione condivisa di valore un punto di partenza grazie al quale non ripensare le sole piattaforme, ma riconcepire il ruolo di tutti gli stakeholder, pubblici e privati. Perché, a rifletterci bene, la piattaforma cooperativa più importante può diventare la società nel suo insieme.
Crediti immagine: Social Ninja
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