Fratture digitali: dal digital divide alla diseguaglianza sociale digitale

La società sta mutando velocemente e nuove problematiche si affermano di fronte a noi. Se fino a pochi anni fa il cuore della riflessione si focalizzava sul digital divide generazionale, con peculiare attenzione alle differenze che emergevano tra quanti erano cresciuti e invecchiati nell’era analogica e quanti, invece, stavano muovendo i loro passi nell’epoca digitale, oggi il quadro assume contorni nuovi e la frattura digitale si colora di forti toni classisti.

Il digital divide generazionale non è scomparso, restano differenze tra i più adulti e i giovani, ma la vera fenditura, sotterranea e in parte dimenticata, è quella che pone su fronti opposti, dal punto di vista della capacità di cogliere e sfruttare le opportunità generate dallo sviluppo tecnologico, le classi agiate e quelle disagiate, l’upper class e la lower class.

Oggi dobbiamo prestare sempre più attenzione al tema della diseguaglianza sociale digitale. Non si tratta solo della possibilità di accesso alla rete, ma di un ben più ampio e multidimensionale divario nelle capacità di agire nel mondo digitale che chiama in causa le competenze delle persone; l’abilità nello sfruttare e utilizzare le opportunità che fioriscono dalla trasformazione digitale; le forme e le motivazioni di accesso alla rete; ma anche la difficoltà a cogliere le potenzialità partecipative e relazionali generate dall’universo digitale; la distanza dall’espressione creativa nel digitale; la difficoltà a orientarsi nella massa informativa e di decodificarne i contenuti.

Il tema in sé non è sconosciuto, ma assume contorni e dimensioni nuove. Da tempo, analizzando la relazione tra i giovani e i social, si è notato un differenziale nella capacità di cogliere le opportunità offerte dalla rete tra i giovani appartenenti alle diverse classi sociali. Il primo studio è stato condotto addirittura oltre 12 anni fa e ha portato alla luce che, tra gli adolescenti delle classi agiate, rispetto a quelli provenienti da famiglie disagiate, esistono accentuate differenze nel relazionarsi e cogliere le possibilità offerte dai social e dal mondo digitale (vedi la ricerca del 2007 Children, Young Peopleand the Digital Divide).

L’indagine realizzata nel 2018 da SWG, con il Digital transformation institute, evidenzia nettamente il permanere, anzi l’accentuarsi del tema delle diseguaglianze sociali digitali. La fiducia rispetto al progresso raggiunto oggi in campo tecnologico, digitale e dell’intelligenza artificiale è al 51% nella upper class, ma scende al 37% tra gli appartenenti alla lower class. Differenza simile la riscontriamo sul fronte della percezione di preparazione che le persone hanno davanti ai mutamenti tecnologici: l’81% dei membri delle classi agiate si sente pronto, mentre la quota scende al 62% tra i segmenti disagiati. In materia di vision di futuro, di valutazione delle conseguenze introdotte in campo tecnologico, digitale e dell’intelligenza artificiale sulla società, le divergenze sono altrettanto nette: per la upper class le ricadute della trasformazione digitale sono positive per l’87% delle persone, mentre nelle classi più popolari il giudizio di positività è marcatamente più calmierato e si ferma al 61%.

Oltre a differenze di approccio e percezione nei confronti del peso e della funzione che hanno le innovazioni tecnologiche, le differenze tra le classi divengono marcate in ordine alle opportunità offerte e colte.

Per il 77% dei ceti medio-alti l’uso dello smartphone ha migliorato il modo di informarsi su prodotti/servizi e di gestire gli acquisti. Tra i ceti più bassi questo tipo di miglioramento è meno evidente e si ferma al 60%.

Internet delle cose è un universo ancora un po’ nebuloso per i ceti meno abbienti. L’ipotesi che renda la vita più comoda è assunto dal 59% dei ceti medio-alti, mentre tra i segmenti sociali popolari la convinzione, anche per la distanza economica che li separa dal poterseli permettere, è più sfumata e si blocca alla soglia del 45%.

Transitando alle esperienze d’uso della tecnologia, il quadro non sembra mutare. Dialogare con software di assistenza vocale per pc, smartphone, ecc. (SIRI, Cortana, etc), ad esempio, è un’esperienza vissuta dal 66% dei ceti alti rispetto al 51% dei segmenti meno agiati; interagire con la TV tramite lo smartphone è un elemento della quotidianità per il 52% degli upperclassisti, contro il 42% dei lower; infine, utilizzare un servizio basato sulla realtà aumentata è esperienza comune per il 36% dei più agiati, mentre non supera quota 26% tra i segmenti medio-bassi della società.

Nuove fratture sociali

La rivoluzione digitale, l’Internet of Things, l’Intelligenza Artificiale, sono una grande risorsa per il nostro Paese, ma, al contempo, possono diventare un ulteriore elemento per la gestazione e la produzione di nuove fratture sociali.

L’indagine ci ricorda che il posizionamento sociale delle persone influisce sulle risorse a loro disposizione; che oltre al tema dell’accesso disuguale alle tecnologie digitali, conta in modo determinante la diversa capacità di cogliere le opportunità che emergono dalla rivoluzione digitale; che il mismatching nelle competenze digitali non determina solo diversi percorsi di appropriazione tecnologica, ma riduce la piena partecipazione alla società e ai processi di inclusione lavorativa e sociale.

Il tema della trasformazione digitale, pertanto, non può essere più affrontato solo in termini accesso e uso delle innovazioni, ma deve focalizzare l’attenzione sulla strutturazione e sul consolidamento, per tutti, delle competenze, delle capacità e opportunità. La vera sfida della trasformazione digitale non si gioca solo sul quantum di innovazione che si inserirà nella società, ma su quanto le innovazioni, la quarta rivoluzione industriale, diventeranno un reale ascensore sociale per tutte le persone e non solo per i soliti noti. La sfida digitale non sarà solo tecnologica ma sociale e non potrà calcolare solo in termini di Giga, Tera o Petabyte, ma si dovrà mettere al centro la sua capacità di agevolare il posizionamento dei ceti meno agiati nel sistema sociale, di rafforzare le risorse individuali ceti più sfortunati e marginali, di potenziare il livello di partecipazione sociale e civica delle persone (di tutti) riducendo le forme di marginalizzazione ed esclusione. La sfida tecnologica, quindi, si dovrà calcolare in termini di indicatori di armonia sociale, di equilibrio e serenità, di crescita e riduzione delle incertezze e dei disagi.

Dataismo contro umanismo?

Lasciato il tema delle diseguaglianze sociali digitali, possiamo affrontare un secondo argomento che emerge dalla ricerca: il futuro tra ruolo umano e delle macchine. Nell’analizzare le opinioni degli italiani, la ricerca ha provato a costruire un indice tipologico che scorre lungo l’asse umanismo e dataismo, tra quanti ritengono che, nell’adempiere ai diversi compiti, siamo insostituibili gli individui (umanismo) o quanti ritengono superato l’apporto umano e le diverse mansioni potranno essere, tranquillamente, svolte dagli algoritmi (dataismo). Per costruire questo indice tipologico sono state analizzate le opinioni delle persone su un set composito di attività come: scrivere articoli di giornale, comporre musica, presentare potenziali amici, emettere giudizi e sentenze legali, selezionare il personale aziendale, guidare, arbitrare una partita di calcio, diagnosticare malattie, fare le faccende domestiche, assistere i consumatori negli acquisti, investire in borsa, trovare il percorso più rapido in città.

La ricerca ha posto all’attenzione delle persone due dimensioni temporali: quella odierna e quello che accadrà tra 10 anni.

Ne sono risultate due mappe interessanti, articolate in 4 diverse aree: quella dell’esclusivo regno umano, quello del regno umano assistito, quella del regno ibrido e quella del regno degli algoritmi.

La mappa della situazione di oggi, assegna al regno esclusivamente umano, quattro ambiti di attività: scrivere articoli di giornale, comporre musica, presentare potenziali amici, emettere giudizi e sentenze legali. Nel regno umano assistito sono state collocate la selezione del personale aziendale e il guidare. Nel regno ibrido, invece, sono stati inseriti dalle persone intervistate, l’arbitrare una partita di calcio, il diagnosticare le malattie, il fare le faccende domestiche e l’assistere i consumatori negli acquisti. Il regno degli algoritmi, infine, è stato popolato solo dall’investire in borsa e dal trovare il percorso più rapido in città.

Il salto in avanti di due lustri, nella percezione delle persone, determina un cambio radicale. Per gli intervistati non ci sarà più un regno a pertinenza esclusiva del regno umano. In tutte le principali azioni monitorate subentrerà l’assistenza da parte delle macchine e della tecnologia. Tutti gli aspetti, un tempo assegnati in via esclusiva al regno umano, passano al mondo assistito: scrivere articoli di giornale, comporre musica, presentare potenziali amici, emettere giudizi e sentenze legali. Nel regno ibrido scivolano la selezione del personale aziendale e il guidare (oltre ai già presenti: arbitrare una partita di calcio e diagnosticare malattie). Infine, l’universo degli algoritmi si arricchirà del far fare le faccende domestiche, dell’assistere i consumatori negli acquisti, oltre ai già presenti investire in borsa e dal trovare il percorso più rapido in città.

Se dall’universo delle previsioni sulla relazione tra umano e macchine, passiamo a verificare come si posizionano le persone, da un punto di vista filosofico, tra mantenimento della responsabilità dell’agire in mano agli umani e delega agli algoritmi e all’intelligenza artificiale, scopriamo che il Paese di divide, almeno, in 4 diverse tribù, che esprimono diverse tonalità e accentuazioni sul fronte dataista o su quello umanista (usiamo, per convenienza, le categorie idealtipiche derivate dal testo Homus Deus di Harari, 2016).

La prima tribù è quella degli umanisti ortodossi, che sono il 15% della popolazione. Essi prevalgono nelle Generazioni X (+3%) e nella Generazione Z (+5%), mentre scarseggiano tra i Millennial (-8%). Presentano un basso livello di reddito e scolarizzazione e, in generale, esprimono un atteggiamento di sfiducia verso l’innovazione tecnologica e il digitale (+8%). Più che di “umanesimo” confidente nelle capacità dell’essere umano, il loro è un atteggiamento che occhieggia a forme di rifiuto, quasi luddista, dell’innovazione. È un posizionarsi contro l’universo digitale, percependolo come escludente e distante.

La seconda tribù è quella degli umanisti aumentati (30% della popolazione). Hanno posizioni di apertura tra i due mondi. Essi mantengono al centro l’uomo e i suoi bisogni, ma sono aperti e disponibili verso la tecnologia (che è vissuta come mezzo e non come fine). Il loro approccio al tema è utilitaristico e rientrano nel paradigma della “Intelligenza umana aumentata” da contrapporre a quello della pura “intelligenza artificiale”. Questo universo clanico è alimentato da soggetti anziani (+8%), Baby boomer (+6%) e da soggetti con alto livello d’istruzione (+8%). In questo agglomerato incontriamo meno persone appartenenti alle generazioni “X” (-6%) e “Z” (-9%).

Sul fronte opposto, ma con forme di maggiore ideologizzazione dell’universo dell’intelligenza artificiale, incontriamo i dataisti prudenti. È la tribù numericamente più consistente, che raccoglie il 41% della popolazione. I dataisti prudenti esprimono fiducia nel progresso tecnologico (+4%) e prevedono un mondo maggiormente dominato dall’intelligenza artificiale. La loro, però, è una delega calmierata agli algoritmi e all’intelligenza artificiale. Sono degli entusiasti della tecnologia, ma ne avvertono alcuni pericoli e come tale si mantengono su una linea di dataismo accorto, misurato e controllato. Questa tribù è il regno dei Millennials (+7%), delle persone mediamente istruite e dalle buone competenze tecnologiche (+5%).

Infine, i dataisti forzati, che assommano al 14% dell’opinione pubblica. A differenza degli umanisti ortodossi, i dataisti forzati non sono degli oltranzisti. La loro visione di uso pervasivo dell’intelligenza artificiale, in sostituzione di quella umana (anche nei compiti anche più delicati e complessi), è il portato di due dinamiche differenti. Da un lato, in questo agglomerato clanico, confluiscono le persone che ritengono ineluttabile il predominio degli algoritmi, rifiutano gli atteggiamenti para-luddistici degli umanisti ortodossi e si posizionano in un aventinesco senso di accettazione rassegnata. Troviamo in questo clan quella parte di popolazione più povera e meno istruita che intravvede nello sviluppo tecnologico la slavina che li può travolgere e non si predispone su una posizione di contrasto frontale. Dall’altro lato, incontriamo i veri dataisti puri, in cui prevalgono Millennials e Generazione Z, con competenze digitali più avanzate. Questo raggruppamento si immagina un futuro in cui l’intelligenza artificiale dominerà la maggioranza delle attività e consentirà una gestione razionale, ma disumanizzata del mondo. Il tratto che accomuna entrambe le anime è, pertanto, la disillusione verso il futuro. Quello italico è un dataismo forzato, che non mostra entusiasmo tecnologico, ma un atteggiamento di rassegnazione verso un ineluttabile e distopico futuro a trazione artificiale.

 

Questa vision di Enzo Risso è parte della ricerca #RetailTransformation e Trasformazione Digitale: il senso di una rivoluzione di senso, elaborata dal Digital Transformation Institute e dal CFMT, in collaborazione con Assintel ed SWG.

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Direttore scientifico di SWG e docente di teoria e analisi delle audience all'Università La Sapienza di Roma. Da anni guida un team di ricerca sul marketing comunicativo e sullo storytelling d’impresa, politico e territoriale. Analista-editorialista per il Messaggero, è autore di un’ampia bibliografia di studi e ricerche. Ha pubblicato con Guerini “La conquista del popolo. Dalla fine delle grandi narrazioni alle nuove identità politiche e narrative” (2019); “In modo diverso, 1997-2017: come è cambiata l’opinione pubblica italiana” (2017); “Con rabbia e speranza, Il nuovo volto dell’Italia in cerca di riscatto” (2016), oltre a una quarantina di volumi di analisi del Paese e dei valor degli italiani, nonché sui giovani, sull’impatto dell’immigrazione, sulle dinamiche ambientali, sociali, cultuali e della sicurezza. Altri testi di recente pubblicazione: “Consumer affinity model”, Micro & macro marketing, il Mulino, 3 2016; “L'economia della coesione nell'era della vulnerabilità”, Aiccon, Bologna 2016; “Le modifiche dei comportamenti di consumo legate al web e al multidevice”, In Rapporto Unioncamere.

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