Rompere le scatole: giovani hacker per la Repubblica Digitale

“Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta”
Apologia di Socrate, Platone

Giorni  fa, a conclusione dell’ultimo ForumPA, Luca Attias, il commissario straordinario del Governo per l’attuazione dell’agenda digitale e Guido Scorza, che nel Team Digitale del Governo è responsabile degli affari regolamentari, hanno fondato la Repubblica Digitale, chiamando a raccolta la comunità (qualche tempo fa si sarebbe detto degli informatici, ma il termine sta perdendo progressivamente di allure) “con l’obiettivo di accompagnare il processo di trasformazione digitale con una serie di azioni di inclusione digitale finalizzate a abbattere ogni forma di divario di carattere culturale”, con un occhio particolare a giovani e giovanissimi.

Un progetto fondamentale in un Paese che negli ultimi anni ha fatto di tutto per trasmettere il concetto che la tecnologia fosse un mezzo da utilizzare come un autobus e non, per citare Pirsig, una motocicletta da manutenere. E se sei il passeggero di un autobus, per certo non  avrai nessuna consapevolezza del viaggio, nessuna possibilità di immaginare viaggi differenti e peraltro, correrai il rischio di trovarti parecchio lontano dalla destinazione che desideravi.

In questa direzione è andato il progressivo depauperamento delle competenze dell’informatica nazionale, le tariffe giornaliere unitarie demenziali nei contratti di fornitura di competenze informatiche e tecnologiche, la sostanziale distruzione degli studi universitari (si pensi a quanto poco sia rimasto del micidiale biennio di ingegneria e al fatto che i fortunati sopravvissuti – non secondi per ardimento ai reduci della battaglia di Agincourt – acquisissero non solo competenze ma una vera e propria forma mentis dell’ingegnere).

Prima ancora che la parola “hacker” fosse di uso comune (benché nella sua accezione attuale, erronea, di “pirata” e non di “esploratore”), la scuola di tecnologia del Paese aveva  acquisito la specifica competenza di aprire le scatole, capirne le logiche di funzionamento, immaginare nuovi modi di farle funzionare insieme.

Quel modo di pensare sembra nel Paese ormai in via di estinzione, un altro dei molti indizi di un declino arrestabilissimo, a condizione di ripartire dagli aspetti fondanti di un nuovo approccio culturale (sì, culturale) e alla costruzione di un nuovo sistema di valori per i più giovani.

Per questo Repubblica Digitale è così importante, perché proprio dai giovani occorre ripartire. Superando, prima di tutto, un fraintendimento che rischia di far minimizzare la portata di questo cambiamento.

Nativi digitali, consapevoli digitali?

I giovani, i nativi digitali, sono, per tornare alla metafora del viaggio, eccellenti passeggeri di autobus ma non hanno nessuna idea del fatto che si possa manutenere una motocicletta. Nel loro pantheon tanto Steve Jobs e niente Dennis Ritchie (curiosamente morti lo stesso anno, nel 2011, otto anni fa).

Darei per scontato che tutti conoscano nel dettaglio vita e opere di Steve Jobs. Ipotizzo che sia meno nota l’attività di Ritchie. Ritchie ha inventato il linguaggio C ed è stato uno dei principali autori di Unix.

Per una migliore comprensione di cosa significhi questo per l’informatica, i nostri ragazzi, fortunati possessori di un Mac potrebbero, dopo aver preso le opportune precauzioni (per lo meno un potente ansiolitico) tentare l’intentato e lanciare un “terminale” (si trova nel menù applicazioni, utilità).

Superato lo shock di una interfaccia poco stilosa e decisamente non in tinta con la cover dei loro iPhone,  potrebbero prendere consapevolezza di un interessante asserto: il loro Mac Os X è nipote di Unix (e, se proprio vogliamo essere pedanti, figlio di NeXTStep).

E, peraltro, il software applicativo del loro Mac è scritto in un linguaggio che si chiama Objective C (di ovvia paternità, figlio di quel C con cui era stato originariamente scritto Unix). E a soffermarsi un attimo sullo sfondo nero di quel terminale potrebbero, coi giusti supporti formativi e culturali, capire di essere entrati dalla porta di servizio nella tana del bianconiglio.

In quel recesso, un po’ appartata, ha vissuto un’intera comunità che a partire dagli anni Settanta ha fatto un lungo  viaggio nel quale tutto (o quasi) era possibile.

Un’intera comunità, quella hacker, che ha collaborato, interagito, litigato, ipotizzando che non esistesse UN MODO GIUSTO di fare le cose ma che ognuno potesse costruire UN MODO MIGLIORE PER SE’ di farle; che ha cercato di fronte a uno strumento di chiedersi continuamente se ci fosse un modo inesplorato di utilizzarlo.

Questi modi inesplorati portano a rotture e risultati imprevisti. Risultati imprevisti che generano conoscenza e altri risultati.

E l’informatica di consumo?

In aperto contrasto a questo, l’informatica di consumo, quella su cui i nostri giovani sono “competenti” (se possiamo utilizzare questo termine) è oggi sostanzialmente bipolare.

Da una parte la galassia Google. Libera (come in “ingresso libero”, non come in “libero pensiero” adattando alla lingua italiana e invertendo il motto dello GNU/Linux “free as in free speech not as in free beer”) a condizione di pensare Google, respirare Google, interagire Google, ricercare Google. E che ci spinge verso un paradigma nel quale i nostri PC e i nostri telefoni diventano niente senza un server che offra loro un servizio di ricerca: quello di Google (che determina centralmente cosa si vede, cosa non si vede, in che ordine si vede).

Dall’altra la galassia Apple che scambia una perfetta funzionalità, usabilità, e facilità di interazione con un paradigma di utilizzo basato sull’accettazione, oserei dire religiosa, del MODO D’USO (quello predefinito) e delle CONDIZIONI D’USO (i dispositivi bloccati, il market privativo che predetermina quello che non si può e quello che si può vendere).

Gli utilizzatori di tecnologia, i consumatori di beni e servizi digitali, entrano gratis nel Paese delle Meraviglie digitali. Inconsapevoli di tutto, corrono il rischio reale – nonostante la proclamata intenzione dei magici artefici di quelle meraviglie di “non fare nulla di malvagio” e di trattare con cautela le informazioni, ovvero la merce di scambio che vale come biglietto di ingresso – di essere le ostriche per la cena del tricheco.

Sullo sfondo, la tendenza, chiaramente osservabile, di una specializzazione neo-corporativa che sta portando alla costituzione di un unico meta-editore capace di stabilire chi pubblica cosa e cosa sia rilevante e visibile nelle “storie” dei nostri “amici”, potendo riservare a qualcuno di essi lo stesso trattamento che Stalin riservava ai suoi oppositori politici che scomparivano magicamente da archivi e foto celebrative delle parate militari (sì, sto parlando proprio di Facebook).

La capacità di smontare, di “rompere le scatole” come dice Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute, è in questo scenario l’abilità fondamentale che farà per il futuro la differenza per i nostri giovani.

E dobbiamo essere, a questo  scopo, come Socrate, pronti a “corrompere” la nostra gioventù, a fare immaginare loro che sia possibile ribellarsi alle divinità imperanti: è una questione che determinerà la forma mentis dei nostri figli.

Quanto potranno sperimentare ed essere in sostanza liberi (come in “libero pensiero” non come in “ingresso libero”) dipende, non semplicemente, dalle tecnologie che pervasivamente utilizzano,  ma dal modo in cui impareranno ad usarle. E la buona notizia è che lo strumento che serve per avviare questa rivoluzione è, sostanzialmente, solo la nostra buona volontà.

 

Immagine di copertina “La scuola di Aristotele”, di Gustav Adolph Spangenberg

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