La sostenibilità digitale della didattica alla prova del Coronavirus

Sarebbe bello se bastasse un semplice atto di volontà per far sparire dalla circolazione il coronavirus. Qualcosa del tipo “Un due tre, il Coviddi via da me!”, tipo incantesimo. O filastrocca delle elementari. Ma alle elementari non siamo più e, benché sia evidentemente difficile, si devono fare i conti con la realtà. E la realtà – per i prossimi mesi – allo stato attuale è limitata a due opzioni: saremo costretti ad un nuovo e devastante lockdown se i numeri dei ricoveri in terapia intensiva dovessero andare fuori controllo. Oppure affronteremo lockdown più o meno parziali e mirati, qualora riuscissimo a contenere il virus. Perché – a ben vedere – anche le quarantene alle quali sono sottoposti i cittadini sono dei lockdown molto, molto mirati. E più funzioneranno gli strumenti di contact tracing più tali provvedimenti tenderanno a diffondersi. Negli uffici, nelle aziende, nelle scuole. Con buona pace di chi sbraita contro gli strumenti e le pratiche che in questi mesi ci hanno consentito di svolgere molte di quelle attività che hanno evitato che il nostro mondo si fermasse completamente.

Non considerare il ruolo della tecnologia è da irresponsabili

È la tecnologia che ci ha permesso di non fermarci del tutto. È per questo che è del tutto irresponsabile e dannosa la levata di scudi verso il telelavoro prima e la teledidattica poi. Che – lo sappiamo bene – sono tra i pochi alleati che consentono da una parte di abbattere il carico logistico dei trasporti urbani, dall’altra di aiutare a contenere eventuali contagi diminuendo la densità dei lavoratori negli uffici e degli studenti nelle scuole e nelle università.

Abbiamo perso un tempo che non abbiamo

E così, mentre ci preoccupavamo di rime buccali e banchi a rotelle, abbiamo perso quei mesi che ci avrebbero dato l’opportunità di comprendere come ripensare e riorganizzare quella didattica che oggi speriamo irragionevolmente di gestire come se niente fosse o, nella “migliore” delle ipotesi, di lasciare alla responsabilità di Presidi, scuole ed università. Con il risultato di rifiutare la dimensione del problema dietro il mantra delle scuole e delle università che rimangono aperte e rovesciandolo sulle spalle delle singole istituzioni formative e delle famiglie che – con i focolai nelle aule che sono certamente destinati ad aumentare – dovranno gestire quarantene improvvisate e male organizzate.

Un problema di sistema

Eppure, quello della didattica è uno dei temi più importanti dai quali partire nella gestione della situazione che stiamo vivendo, per almeno due motivi:

  • guardando al presente: gli impatti delle soluzioni individuate hanno una dimensione sistemica, toccando la vita quotidiana di milioni di famiglie, la mobilità nelle città, le dinamiche di diffusione del contagio. Le soluzioni individuate condizioneranno, nel bene e nel male, milioni di persone.
  • Guardando al futuro: gli esiti delle scelte che si stanno facendo, relative alla formazione dei nostri figli, si riverberano sul futuro delle giovani generazioni e del Paese.

Pochi ambiti come quello della scuola, quindi, si prestano ad una riflessione che consenta di affrontare il tema dell’emergenza in un’ottica di sostenibilità. La gestione delle scuole e delle università nei prossimi mesi, infatti, avrà importantissime ripercussioni su tutti, in termini economici e sociali.

La domanda sbagliata

Eppure, ancora una volta, pur senza potercelo permettere stiamo perdendo una grande opportunità, assistendo alla polarizzazione che porta il discorso pubblico e le decisioni ad esso conseguenti a contrapporre fan e detrattori della didattica a distanza, nella convinzione che l’interrogativo sia se la didattica a distanza faccia bene o male. Che, come spesso succede quando si parla di impatti della tecnologia, si tratta della domanda sbagliata.

La sfida della didattica sostenibile

Affrontare il problema dal punto di vista della sostenibilità vuol dire guardare al fenomeno nei suoi impatti diretti ed indiretti, considerando il ruolo degli attori coinvolti (famiglie e insegnanti, ma prima di tutto gli studenti), analizzando i pro ed i contro di scelte che non possono che essere prese nella consapevolezza che ognuna di esse impatterà su numerosi altri ambiti. Ma soprattutto vuol dire avere il coraggio di rendersi conto che stiamo vivendo un’emergenza che impone soluzioni radicali, e che tali soluzioni radicali – spesso abilitate dalla tecnologia – richiedono cambiamenti di paradigma talvolta coraggiosi. L’alternativa è la filastrocca della scuola che rimane aperta “senza se e senza ma”. Filastrocca che si scontra con una realtà – lo stiamo già vedendo in questi giorni – ben diversa, fatte di classi intere mandate in quarantena e di un’indeterminatezza che pesa prevalentemente sulle spalle delle famiglie, dei docenti, degli studenti.

Guardare alla sostenibilità digitale per la didattica vuol dire comprendere come si possano e si debbano utilizzare le tecnologie non solo per “remotizzare” le lezioni – cosa che poteva andar bene nelle prime settimane dell’emergenza – ma per ripensare il settore così che possa far fronte ad una situazione che non passerà in pochi mesi, e che potrebbe essere invece lo spunto per lasciare in eredità al Paese un patrimonio di sperimentazioni, esperienze e competenze di grande utilità per il futuro.

Alcune questioni aperte

Ciò vuol dire avere il coraggio di mettersi in discussione, a partire da alcuni assunti da prendere in considerazione:

  • non si deve focalizzare l’attenzione sulla contrapposizione tra didattica in presenza ed a distanza. Si deve invece comprendere come la tecnologia possa essere di supporto nella riprogettazione dei percorsi didattici nella loro complessità. Ciò nell’ottica non della didattica a distanza, ma della didattica digitale integrata. Ed a partire dalla consapevolezza che in questo momento storico potrà essere necessario, in determinati contesti, pensare che ci saranno situazioni per le quali la distanza sarà una condizione inevitabile.
  • Non si devono pensare soluzioni “monoliche”. La chiave non è nel “tutti in aula” o nel “tutti a casa”. Sarà necessario invece identificare modelli che consentano di bilanciare dinamicamente presenza e distanza, distribuendo i momenti in base alle condizioni contingenti che si verificheranno nei singoli territori, nelle singole scuole, nelle singole aule. Ciò vuol dire avere la capacità di rimodulare i programmi e le propedeuticità tra gli insegnamenti, implica un maggior coordinamento tra i docenti e sicuramente più flessibilità da parte di tutti. Ma è l’unico modo per non bloccare il sistema.
  • Non si deve pensare che l’esigenza di presenza sia uguale per tutti. Non solo gli studenti di una scuola media hanno esigenze diverse dai loro colleghi dell’università, e questo è sufficientemente chiaro, ma anche nell’ambito dei diversi ordinamenti non tutti gli insegnamenti sono uguali. Studiare chirurgia della mano è diverso dallo studiare fondamenti di diritto amministrativo. Per alcune materie la presenza è fondamentale, per altre quasi del tutto accessoria. Dare spazio alle prime vuol dire mettere nelle condizioni gli studenti di disporre di condizioni logistiche più sicure, di spazi adeguati, di docenti dedicati. Rimandando alla distanza quegli insegnamenti per i quali l’essere nello stesso posto del docente non rappresenta un valore aggiunto insostituibile (almeno con le tecnologie attuali).
  • Non si deve pensare di poter “traslare” pedissequamente modelli didattici tradizionali in contesti formativi nuovi. Un webinar è diverso da una lezione frontale. Cambia la capacità di concentrazione, cambia la reattività, cambia il modello di interazione con l’aula. Pensare, spostando le lezioni on-line, di potersela cavare con uno sproloquio lungo ore (come è successo in molti casi) vuol dire non avere la minima consapevolezza del nuovo contesto didattico. Le lezioni vanno riprogettate nella forma e nella sostanza.
  • La dimensione amministrativa è funzionale, non generativa delle scelte didattiche. Se, ad esempio, si guarda alle dinamiche di molte Università, è evidente come la preoccupazione centrale sia stata – nella risposta all’emergenza – quella di rendicontare i corsi (e lo stesso, ma è un altro tema, vale per la formazione professionale). Non è, questo, un criterio valido, né efficace o sostenibile. Ripensare la didattica vuol dire ripensare anche i modelli ed i sistemi di valutazione e di monitoraggio dell’efficacia delle azioni che si porteranno avanti nei prossimi mesi. Non si può predicare l’importanza del passaggio da modelli organizzativi basati sui processi a modelli orientati al risultato e razzolare approcci formativi basati esclusivamente su processi didattici concepiti per un contesto diverso da quello nel quale si cerca di erogarli. Pensare che un corso presenziale di un determinato numero di ore possa essere portato on-line semplicemente erogando un equivalente numero di ore sotto forma di webinar vuol dire non avere idea di cosa si sta parlando.
  • Non si possono sempre tenere insieme tutti i pezzi. I modelli didattici scelti devono essere consistenti e coerenti con i canali di erogazione. Sempre pensando al caso dell’università, su gruppi estesi non ha senso pensare – in aule semivuote per il distanziamento – che sia sensato tenere erogare una lezione tradizionale con una quota minima degli studenti in presenza ed il resto collegati da casa. Il risultato sarà una scarsa efficacia sia per gli uni che per gli altri, essendo il docente costretto a lavorare nell’intersezione dei limiti dei due modelli didattici. Ad ogni momento il suo canale. Ad ogni strumento il suo ruolo. E se momenti, ruoli e canali si incrociano è bene tenerne conto nella costruzione del modello formativo.
  • Non si deve aver paura di percorre strade nuove. Il combinato disposto di molti dei punti sopra esposti porta ad una conclusione chiara: non è questione di presenza o distanza, si devono adeguare i modelli didattici. E non si deve aver paura di affrontare il “golem” della rendicontazione per ridefinire criteri di efficienza ed efficacia, così come non ci si può vincolare alla propria zona di confort nella definizione di nuovi modi di affrontare la sfida della didattica. Qualche esempio? Nell’Università: siamo sicuri che nei corsi che non hanno frequenza obbligatoria sia utile pensare a complicati virtuosismi amministrativo-didattici per erogare lezioni che gli studenti potrebbero anche non seguire, quando tale tempo potrebbe essere speso in attività laboratoriali nelle quali il docente potrebbe coinvolgere – in presenza come a distanza – piccoli gruppi di studenti? Nelle scuole superiori: siamo certi che rispetto al modello “tutti dentro o tutti fuori” non sia preferibile, oggi, gestire modelli didattici blended che vedano la presenza degli studenti in gruppi più ristretti ed affianchino momenti di presenza a momenti di studio individuale, liberando spazi e garantendo maggiore sicurezza? Insomma: siamo sicuri che piuttosto che focalizzare sul quanto sia bella o quanto sia brutta la didattica a distanza non sia meglio ripensare tutta la nostra didattica (e non solo per il coronavirus), piuttosto che ancorarci a modelli consolidati ma, spesso, superati?

La dimensione di sistema e il faro di Agenda2030

Ripensare la didattica nell’ottica della sostenibilità digitale non vuol dire solo guardare al Goal 4 che si riferisce alla necessità di “assicurare un’istruzione di qualità”, ma ricordarsi che secondo lo stesso Goal 4 l’istruzione deve essere “equa ed inclusiva”. E in un momento in cui una parte significativa delle attività finisce con lo spostarsi on-line questo vuol dire preoccuparsi di rendere l’accesso alla rete realmente universale, essendo essa il canale di erogazione di quell’istruzione (che è poi anche uno dei target del Goal 9, quando parla di “aumentare significativamente l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e sforzarsi di fornire un accesso universale e a basso costo a Internet”). E vuol dire ripensare la didattica digitale anche sulla base di criteri di accessibilità che consentano a tutti di fruire delle attività didattiche. Ma ripensare una didattica sostenibile vuol dire anche andare oltre il Goal 4 e tener presente che il Goal 3 parla di salute e di benessere. Quella salute e quel benessere che, in una pandemia, sono tutt’altro che scontati. E quindi l’istruzione di qualità deve essere fatta garantendo la salute degli studenti, così come dei professori. Ed anche in questo gli strumenti digitali possono essere di grande aiuto. Ma ancora: è importante identificare modelli che garantiscano le pari opportunità ed escludano le discriminazioni, il che vuol dire seguire le indicazioni del Goal 8, che evidenzia come si debba “promuovere un ambiente di lavoro sicuro e protetto per tutti i lavoratori” (e no: pensare di rimuovere dal servizio di docenti più a rischio non è una soluzione). E tutto ciò va fatto progettando una didattica che non pesi sulle famiglie che lavorano e che si basi su modelli che garantiscano la sostenibilità sociale nell’emergenza, senza generare effetti che andrebbero contro il Goal 5, che parla di parità di genere in un contesto in cui il carico dei figli troppo spesso è sbilanciato sulle madri (conseguenza ovvia del fatto che la “la parità di retribuzione per lavoro di pari valore” della quale parla il Goal 8 è ancora troppo spesso un’utopia). Per non parlare della centralità del Goal 11, che si riferisce alle città e comunità sostenibili: una didattica digitale pensata in una dimensione di sostenibilità non può non tener conto degli impatti sulla città a moltissimi livelli: dai flussi urbani che generano gli studenti che si muovono ai tempi e spazi di vita e di lavoro dei suoi abitanti.

Insomma, si potrebbe continuare a lungo, evidenziando la dimensione sistemica dei diversi obiettivi di Agenda 2030 declinati su un tema come quello dell’istruzione, ma appare evidente come la progettazione di una nuova didattica sostenibile tocchi trasversalmente moltissimi settori della società. Per questo gli obiettivi di Agenda2030 proprio in emergenza diventano un importante faro al quale puntare nella definizione di scelte difficili e spesso complesse da attuare. Un faro che vede nella tecnologia digitale un grande alleato, purché si comprenda come essa ridefinisca soluzioni e strumenti. Soluzioni e strumenti che saranno tanto più efficaci quanto più collegati alla nostra capacità di ripensare processi e modelli ai quali siamo ormai abituati partendo dalla consapevolezza della necessità contingente del cambiamento che il coronavirus ci impone.

Non si può ridurre il discorso alla diatriba tra favorevoli e contrari alla didattica a distanza. Diatriba che rappresenta un’inammissibile semplificazione di un problema estremamente complesso e che avrebbe dovuto rappresentare il centro delle riflessioni degli ultimi mesi su come riorganizzare la scuola in un momento in cui alla sua funzione educativa si affianca una funzione sociale fortissima.

Certo, discutere di banchi è più semplice. Ma poi ci si scontra con la realtà. Una realtà che – per riprendere il tema dal quale si è partiti in questa riflessione – impone che, per ottenere le risposte corrette, ci si ponga la domanda giusta: come ripensare, anche grazie al digitale, una didattica sostenibile? La risposta è tutt’altro che scontata. E sta a noi trovarla.

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