Greenwashing diventa epicFail: il caso Boohoo

Il greenwahing è sempre una strategia “studiata”? Si potrebbe pensare che un brand che decide di darsi “una mano di verde” per avere più appeal sul pubblico lo faccia pianificando tutti i dettagli, soppesando ogni mossa, soprattutto se si ha la necessità di mettere in evidenza determinate attività e farne passare delle altre più in sordina, magari non esattamente “green”.

Mettendo per un attimo da parte la questione etica e considerando il greenwashing esclusivamente dal punto di vista strategico, è evidente che un brand che sceglie questa via non lo fa per assecondare l’opinione pubblica, ma piuttosto per influenzarla. E per riuscire in questa impresa non si può improvvisare: il rischio di auto-smascherarsi è dietro l’angolo.

È quello che è successo a Boohoo, un brand di uno dei settori più eco un-friendly del nostro tempo: l’abbigliamento low cost. Boohoo è un’azienda di Manchester che, nel giro di pochi anni, si è fatta strada nella giungla dei retailer internazionali di abbigliamento low cost: vendite online, target femminile e giovane e prezzi relativamente bassi sono le caratteristiche principali di un brand in rapida crescita che ha cercato di intercettare l’ondata green che ha dominato il dibattito pubblico di questo 2019, finendo però per fasi lo sgambetto da solo.

All’inizio di quest’anno, infatti, Boohoo ha annunciato di aver eliminato dal proprio catalogo tutti i capi contenenti lana. Un annuncio che evidentemente era stato fatto per ottenere il plauso delle associazioni animaliste inglesi – in particolar modo la PETA, che soltanto qualche mese prima aveva pubblicato un’inchiesta sull’industria della lana, e sulla brutalità degli allevamenti intensivi e dei metodi di tosatura di pecore e agnelli.

Foto via: vice.com

E, infatti, è stata proprio la PETA a rispondere per prima all’annuncio di Boohoo di mettere al bando la lana, definendola una “scelta saggia” sia da un punto di vista etico che di business.

La presa di posizione di Boohoo, tuttavia, non è durata che poche ore: nel giro di pochissimo, infatti, l’azienda ha diramato un secondo comunicato stampa in cui faceva sostanzialmente marcia indietro, annunciando che i capi in lana avrebbero continuato a far parte del proprio catalogo, assicurando però il proprio impegno a rifornirsi solo di “lana sostenibile”, proveniente da esclusivamente da allevamenti che avrebbero garantito il benessere degli animali.

Cosa è successo nell’arco di quelle poche ore? È successo che l’annuncio di Boohoo non era stato recepito solo dalla PETA, ma anche da altre associazioni ambientaliste e da quelle dei produttori di lana, che hanno fatto notare come i materiali sintetici utilizzati nella produzione dei capi di Boohoo fossero in realtà piuttosto inquinanti. Un esempio? La finta pelliccia, fabbricata con materiali plastici non bio degradabili.

Così, davanti all’evidente contestazione, Boohoo ha pensato bene di tirare i remi in barca, preferendo contraddirsi piuttosto che affrontare una polemica con il finale già scritto.

Al di là delle implicazioni etiche, il greenwashing è una strategia estremamente delicata ed è per questo che, se messo bene in pratica, è così difficile da identificare. Il caso di Boohoo è un esempio di greenwashing molto grossolano e pressapochista, in cui si è cercato di “fare colpo” su un soggetto potente – la PETA – senza chiedersi se la propria azione sarebbe stata percepita come positiva da tutto il pubblico. Ed è così che la famosa “patina verde” propria del greenwashing si scioglie come neve al sole, rivelando le vere intenzioni di un brand che, nella migliore delle ipotesi, voleva semplicemente ingraziarsi parte del movimento animalista con una pseudo “dichiarazione-bomba” che però non aveva alcun fondamento reale. Così, nel goffo tentativo di assecondare prima questo e poi quell’altro gruppo, Boohoo ha finito per auto-sabotarsi, giocandosi la propria credibilità futura qualora dovesse decidere di intraprendere un percorso verso la costruzione di un brand realmente sostenibile.

Lesson Learned: Dichiararsi “green” non fa di te un brand green. Specialmente se lo stai facendo per compiacere il pubblico già sensibile su un tema particolarmente caldo, ma senza intraprendere nessuna azione concreta. 

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