It’s all too much

“Sai, questo… questo è un caso molto, molto complicato, Maude.  Un sacco di input e di output. Sai, fortunatamente io rispetto un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente, diciamo, flessibile”.

Il Drugo (Big Lebowski)

Due incubi tormentano la Terra e i suoi abitanti nel XXI secolo: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell’automazione. Questi due fantasmi sono gli estremi di una linea immaginaria, che esprime da un lato il troppo poco e dall’altro il troppo. La paura del cambiamento climatico si basa sull’ossessione dell’avere troppo poco (scarsità di risorse naturale: perdita di terreni agricoli e di ambienti “sani”, ecc.). L’incubo dell’automazione, dall’altro lato della linea, è la paura di avere troppo. In pratica un’economia totalmente robotizzata che produce quasi tutto con scarso apporto di lavoro “umano”. In molti ne parlano e tutti hanno qualcosa da dire. Il rischio è che questi due temi diventino degli slogan o meglio degli hashtag. Parole da mettere in qualsiasi discorso per accattivarsi la simpatia del pubblico, recitate come una preghiera per trasmettere una competenza e un  interesse che forse non c’è. In fondo il troppo e il troppo poco è un bel dilemma: stiamo entrando (probabilmente ci siamo già) in un periodo dove contemporaneamente c’è una crisi di scarsità e abbondanza allo stesso tempo.

Una situazione poco sostenibile? Forse il padre della cibernetica Norbert Weiner lo aveva già anticipato più di 60 anni fa:

“Abbiamo modificato così radicalmente il nostro ambiente che adesso dobbiamo modificare noi stessi per sopravvivere nell’ambiente nuovo.” 

In questo scenario il nostro ruolo sarà ancora centrale o di mere comparse in un set cinematografico dove l’attore principale sarà il software in grado di fare, forse, meglio di noi quel lavoro (algocrazia). Forse continuiamo a porci domande sbagliate e dovremmo cominciare invece a riparlare di globalizzazione.

Come cambia la globalizzazione con l’esplosione dell’intelligenza artificiale, dalla realtà aumentata, dalle stampanti 3D, dai traduttori automatici e dei racconti fantasy? Cosa sta succedendo a questa globalizzazione nata con I Beatles e che probabilmente sta esaurendo la sua carica grazie ai colpi inferti dal RAP? Come valutare il nuovo flusso migratorio in arrivo dai paesi orientali? Dal Corriere della Sera di qualche settimana fa: “Quattro le persone arrestate in relazione alla tragica morte dei 39 migranti asiatici”. Con la globalizzazione abbiamo spostato milioni di fabbriche in quelle nazioni e creato centinai di milioni di posti di lavoro, quindi, non ti aspetti emigranti in arrivo da quella parte del mondo. Ben altre sono le nazioni da cui ci aspettiamo un fenomeno migratorio. Che cosa nascondono questi avvenimenti? L’uomo da sempre ha bisogno di una “narrazione” per orientarsi. Disporre di una narrazione è una condizione molto rassicurante, ci chiarisce le idee e ci permette di scegliere. Fino a poco tempo fa le narrazioni erano ben definite (Dei dell’antico Olimpo, Fascismo, Comunismo, Liberale, Anarchica…). Rimanere senza una narrazione fa paura. Nulla ha più senso. E oggi noi non abbiamo una narrazione degna di questo nome. Abbiamo solo una futile narrazione futurologica. In breve tempo siamo passati dall’Uomo al centro dell’universo (Uomo Vitruviano) alla narrazione del Cliente al Centro (forse sarebbe meglio dire che al centro c’è il portafoglio di questo fantomatico cliente).

Nella immaginaria linea che va dal troppo poco al troppo (agli estremi ci sono solo i fideisti) cerchiamo di trovare e portare avanti una narrazione “politica” capace di portarci fuori da questo paradosso. Quale? Una trasformazione ha sempre due elementi: quella esterna (le tecnologie) e quella interna (la nostra personale trasformazione). Allora il tema è: saranno le tecnologie che ricevendo feedback da noi si evolveranno nella nostra direzione, o saremo noi che prenderemo i feedback dei sistemi di AI e ci adegueremo? Un ibrido? Un cyborg? Come sapevano benissimo gli alchimisti il globale (as above) è intrecciato con il locale (so below). Adesso sta a noi capire cosa è globale e cosa è locale e la narrazione che ne deriva. Lungo il percorso proveremo a cercare  questa narrazione. Al momento fissiamo i punti poi proveremo ad unirli. Un primo punto possiamo già fissarlo. Come al solito il rock è semplicemente disarmante nella sua sintesi. “It’s all too much”, cantavano I Beatles e raccomandavano “All the world’s a birthday cake So take a piece but not too much”. Ecco non sprechiamo quello che abbiamo. Prendiamo esattamente quello che ci serve cominciando a fare gli scultori, togliamoci di dosso le inutili sovrastrutture che costruiamo tutti i giorni a difesa di un territorio “culturale” in via di estensione. Sembra facile, ma è qui la complessità della scelta. Che significa scegliere il giusto? I ricchi pensano che servano loro 3 Ferrari  e il povero Cristo cerca solo di avere un prezzo equo del biglietto del tram. Una media? Punto e a capo. Senza una narrazione è una questione da bar dell’hashtag.

Il futuro è ovviamente incerto, nessuno sa quale forma assumerà. In un mondo eticamente e sostenibile questa forma scaturirebbe da una scelta popolare attenta e informata e non potrebbe essere dominio di una élite. Forse possiamo continuare il viaggio a partire da questa considerazione e cercare la nostra narrazione. In un mondo dove si distruggono in continuazione specie animali e contemporaneamente si cerca di ridare vita ai dinosauri, manipolando il DNA di vecchi fossili arrivati a noi, più che la mente flessibile funzionano le sciagurate droghe dell’intelletto. Quali? Un po’ di pazienza.

 

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