L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile.
Prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione.
Anonimo
Alla voce esperienza, nel vocabolario Treccani, si legge che è «conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso o la pratica, di una determinata sfera della realtà», ma, secondo il sociologo Paolo Jedlowski, pochi sono i termini che «hanno un contenuto più stratificato e si prestano a una maggiore varietà di usi. La parola esperienza assume significati diversi a seconda dei contesti in cui è inserita […]. Ma il problema del concetto di esperienza, che si riverbera in ogni sua definizione, è dato dalla sua complessità: esperienza è infatti sia ciò che si vive (solo in parte consapevolmente), sia il processo attraverso cui il soggetto si appropria del «vissuto» e lo sintetizza».
Come ci ricordano Gianluca Bocchi e Mauro Cerruti, nel mondo moderno il sapere non è più solo un accumulo di conoscenza, ma diventa reticolare; l’esperienza, dunque, non è più unica, ma molteplice, i percorsi sono interconnessi e potenzialmente illimitati, così che le persone possono scegliere quelle più significative per loro stesse e possono rielaborarle secondo i loro contesti. Perché l’esperienza – soprattutto nell’ambito formativo, ma non solo – non è trasmettere ad altri nozioni acquisite che poi vengono restituite a mo’ di verifica, ma è sollecitare nel soggetto nuove esperienze assimilabili a quelle compiute e successivamente elaborabili.
Il primo tentativo di disciplinare l’apprendimento esperienziale, o experiential learning, individuandone i fondamenti epistemologici lo dobbiamo all’educatore statunitense David Kolb, che delinea il percorso di apprendimento come formazione continua dell’individuo. Cogliendo le connessioni tra educazione, lavoro e sviluppo della persona, le esamina in modo critico al fine di offrire un sistema di competenze che, attraverso metodologie esperienziali, porti all’elaborazione di obiettivi educativi aderenti al reale mondo del lavoro.
La conoscenza, dunque, si sviluppa mediante l’osservazione e la trasformazione dell’esperienza tramite un processo che passa attraverso la fase delle esperienze concrete, in cui l’apprendimento avviene per mezzo delle percezioni e quindi come interpretazione personale di esperienze; la fase dell’osservazione riflessiva, in cui l’apprendimento deriva invece dalla comprensione dei significati tramite l’osservazione e l’ascolto; la fase della concettualizzazione astratta, nella quale l’apprendimento deriva dall’analisi e dall’organizzazione logica dei flussi di informazioni; la fase della sperimentazione attiva, in cui l’apprendimento è il risultato di azione, sperimentazione e verifica di funzionamento ai fini dell’evoluzione o di possibili cambiamenti.
Piergiorgio Reggio, pedagogista, formatore e ricercatore, definisce l’esperienza un «quarto sapere», un sapere diverso dalla triade sapere, saper fare e saper essere, un sapere profondo che viene dall’esperienza realmente vissuta, fondante dell’apprendimento che intrinsecamente è esperienziale in quanto avviene, nella persona che sta apprendendo, una trasformazione dei fatti e delle situazioni vissute in maniera consapevole. Cosa hanno in comune camminare nella neve con le racchette, tenere una lezione universitaria a partire dai sogni, svolgere un compito sul lavoro e ripeterlo in modo riflessivo in un corso di formazione, visitare luoghi artistici, fare uno stage aziendale all’estero e svolgere attività educative nel sociale? Sono tutte forme di apprendimento esperienziale (experiential learning). Le esperienze sono oggi accelerate, frammentate, virtuali, da costruire attraverso uno sforzo creativo. Occorre «fare» l’esperienza e ciò avviene quando trasformiamo i fatti quotidiani in apprendimenti.
La formazione è chiamata a farsi carico di situazioni educative che non sono mai prevedibili e categorizzabili, ma che richiedono una capacità di risposta contestualizzata; ed è per questo che le organizzazioni, nel momento in cui scoprono che l’innovazione non può venire solo dall’ibridazione dei linguaggi, devono sentire forte l’esigenza di investire in esperienze multisensoriali attraverso il contatto diretto con altre realtà che si muovono in mercati particolarmente competitivi. E i learning tour, che rientrano in quella che viene definita «formazione outdoor», si fondano su una approaching innovation, cioè vanno visti come un’occasione di apprendimento vivace e interattivo che consente ai partecipanti di entrare in contatto con contesti e personalità del panorama nazionale ed europeo, collegando in tal modo i molteplici aspetti culturali, organizzativi e professionali che possono promuovere una maggiore consapevolezza della necessità di svolgere un ruolo sempre più attivo e creativo all’interno del proprio ambito lavorativo.
Alle imprese non basta la consapevolezza che per riuscire a sopravvivere nei mercati del futuro l’apprendimento è il punto chiave, ma devono adeguare i loro sistemi di education per i manager del futuro.
Come apprenderà, dunque, la società del futuro?
Come le nuove tecnologie stanno impattando su quelle che sono le nostre sinapsi neuronali? Michel Serres afferma che «le nuove tecnologie ci hanno condotto in un certo modo ad accorgerci che il regno del soft è molto più importante di quello dell’hard». Oggigiorno pensare significa compiere quattro operazioni: ricevere, trasmettere, stoccare e trattare l’informazione.
I contesti, le strategie e le tecnologie per la formazione stanno dunque evolvendo a una velocità incredibile. Come abbiamo visto, una comunicazione always on, il mobile computing, i nuovi ritmi di vita e di lavoro sono quanto le tecnologie hanno generato, e queste hanno un impatto diretto su come le persone vivono, comunicano, apprendono. Nuovi fattori che stanno cambiando il modo di apprendere e di migliorare le performance delle persone.
Un fattore da non dimenticare quando si parla di esperienzialità nella formazione è quello dell’energia generata nelle organizzazioni, la spina dorsale di ogni team. Anna Laura Comunian ne parla nel suo libro L’esperienza dei gruppi ottimali e spiega come l’energia del gruppo sia data dall’interazione tra i suoi membri che perseguono uno scopo comune. L’apporto creativo dell’energia di ognuno permette di solidificare il gruppo, rendendolo, per l’appunto, ottimale.
Il punto dal quale dobbiamo partire è che il gruppo in principio non ha energia e per esistere e crescere deve ricavarla dalle persone che lo compongono. Pertanto, essere consapevoli dell’energia di gruppo porta benessere a tutta l’organizzazione.
Soprattutto in questo momento storico, in cui l’attuale crisi impone l’attivazione di nuovi processi creativi con risorse limitate, tutte le organizzazioni devono essere consapevoli della necessità di rendere i loro gruppi ottimali. Occorre dunque che le organizzazioni, nel perseguire il loro scopo, si rendano competitive puntando sulle dinamiche relazionali collaborative che sostengono la produttività intesa come interdipendenza e relazionalità (relatedness).
Le potenzialità delle communities organizzative sono strettamente legate alla comprensione delle dinamiche relazionali e sociali del gruppo stesso: quanto più aperte e collaborative sono le relazioni tanto più produttiva è una community.
Il grande psicologo americano Carl Rogers parlava di tendenza attualizzante, una forza motivazionale propria delle persone che agisce in modo costruttivo durante le relazioni. È una tendenza ad attualizzare tutte le proprie potenzialità, è l’energia che porta l’individuo ad affrontare anche le difficoltà verso la realizzazione dell’obiettivo prefissato.
Nel libro di Andrea Pensotti e Franco Marzo Energia vitale. Dalle molecole alle organizzazioni: viaggio tra le radici comuni della vita, viene consigliato alle organizzazioni di tenere sempre alto il livello di energia all’interno dei gruppi, uniformando per esempio il linguaggio, facendo in modo che i componenti dei gruppi si sentano engaged e che vengano facilitati i flussi relazionali, perché non bisogna dimenticare che l’energia del gruppo si alimenta anche attraverso il senso di appartenenza. E a questo riguardo, nel libro, è presente un interessante contributo di Stefano Lucarelli, direttore d’orchestra, pianista e divulgatore, in cui l’autore sottolinea come nella sua esperienza l’orchestra moltiplichi l’energia, mentre un solista, per quanto bravo rimane occupato a comunicare con se stesso e perciò perde energia. Quando si suona in due è la necessità di comunicare che produce energia, più di quanta ne verrebbe espressa da soli.
Una volta che l’esperienza viene interiorizzata, ciò che realmente cambia all’interno dell’azienda è la cultura della formazione: separare la conoscenza acquisita dai suoi possessori e trasferirla in un dominio condiviso, attraverso le buone pratiche. C’è un processo di socializzazione (che è il tour) che passa attraverso un processo di interiorizzazione (che è la conoscenza appresa durante il tour) per giungere a un altro processo di socializzazione (che è la best practice), diverso da quello di partenza perché appunto arricchito dall’esperienza e dalle conoscenze precedenti.
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