Pinkwashing e marketing: il caso KFC

Se il caso dei rossetti di Avon contro il cancro al seno è forse uno dei casi più controversi di pinkwashing, l’esempio più famoso – nonché quello che ha avuto più rilevanza a livello globale – è quello dei “secchielli rosa” di KFC.

Come sappiamo, analogamente al greenwashing, il pinkwashing è una particolare strategia di marketing che fa leva su un tema particolarmente sentito dall’opinione pubblica – in questo caso la lotta contro il cancro al seno – per posizionare un prodotto o un brand in un dato segmento di mercato.

Come i rossetti di Avon, anche il caso dei “secchielli rosa” di KFC ha fatto scuola, sia per la risonanza che l’iniziativa ha avuto, sia per le polemiche che ha scatenato.

Le cose sono andate così: nella primavera del 2010 e il colosso del fast food KFC annunciò di voler donare 50 centesimi per ogni secchiello di pollo fritto venduto nei mesi di aprile e maggio di quello stesso anno. L’iniziativa si chiamava Buckets For The Cure ed era in collaborazione con Komen, una delle più grandi e famose associazioni di volontariato per la lotta contro il cancro al seno. Era proprio Komen, infatti, a ricevere i proventi della campagna di KFC che, per l’occasione, introdusse accanto ai propri iconici secchielli – storici contenitori delle alette di pollo fritte e diventati il simbolo del band – dei nuovi secchielli rosa, creati ad hoc per pubblicizzare la campagna.

Foto via: w1nnersclub.com

 

Alla fine della campagna furono raccolti oltre 4 milioni di dollari da devolvere a Komen: la più alta donazione di sempre da un singolo donatore nella storia dell’associazione, nonché un grande successo di marketing per KFC.

Tuttavia, non passò molto tempo prima che qualcuno cominciò a far notare che c’era più di un sassolino nell’ingranaggio quasi perfetto dell’iniziativa di KFC. In primo luogo, come evidenziò uno dei columnist del Washington Post, la donazione di KFC a Komen era stata fatta a priori, ovvero prima della reale fine della campagna: questo faceva sì che l’acquisto dei cestelli di beneficenza da parte dei clienti fosse, in un certo senso, ininfluente. L’iniziativa di KFC si basava sull’innescare nei clienti la più classica delle “gare di solidarietà”, lasciando che passasse in sordina il fatto che ogni reale acquisto non sarebbe andato ad accrescere la cifra devoluta a Komen, ma solo gli incassi di KFC.

Non solo: come sottolineato da più parti, il cibo venduto da KFC come protagonista della campagna – il pollo fritto – era ed è particolarmente calorico e ricco di grassi saturi: insomma, quello che viene considerato junk food, uno dei principali responsabile dell’obesità. Obesità che viene ritenuta uno dei fattori dell’aumento del rischio di ammalarsi cancro, compreso quello al seno. Quest’ultima obiezione andò a impattare anche sull’immagine di Komen, accusata di “allearsi” con uno dei promotori di abitudini alimentari non salutari e rischiose per la salute.

In definitiva, anche se la campagna di KFC viene ricordata sia come un successo commerciale che per la generosità della donazione effettuata, è stata anche additata come uno dei più grandi esempi di pinkwashing: promuovere la lotta contro il cancro al seno con l’intento non dichiarato di “spingere” il proprio brand e i propri prodotti a un pubblico più vasto. E la questione è quantomai complessa perché, se da una parte la beneficenza è reale, così come è reale il fatto di aver fatto opera di sensibilizzazione su un tema delicato, è altrettanto vero che il promotore di queste azioni è un brand dalla reputazione non esattamente immacolata, sia in termini di sostenibilità che di salubrità. Un aspetto, questo, comune a molti altri casi di pinkwashing (e greenwashing).

Lesson Learned: Chiedersi se dietro ogni iniziativa di beneficenza dei grandi brand ci sia anche un interesse più squisitamente commerciale è più che lecito. Se sei uno di questi grandi brand preparati a fronteggiare obiezioni e accuse che, e questo dipende dal tuo brand e dalla sua storia, potranno essere più o meno fondate. 

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