Per costruire un futuro sostenibile aiutano un pugno di like? Intervista a Simone Cosimi

C’è bisogno di confronto e dibattito pubblico per costruire una società che scelga un futuro più sostenibile. C’è bisogno di poter esprimere la propria opinione in modo bilanciato, mettendo in evidenza sia un like che un dislike. C’è bisogno di quello che oggi sulle piattaforme social non c’è: la possibilità di dire: “non mi piace”. Simone Cosimi, nel suo ultimo libro “Per un pugno di like” non solo ricostruisce la storia di una “dittatura dell’ottimismo” che imperversa sui social, ma cerca di desumere gli effetti collaterali del poter esprimere solo un cuore o un pollice alzato. “Non siamo più abituati al confronto costruttivo – spiega Cosimi – perché percorriamo strade a senso unico, in cui le nostre reazioni a un post sono mutilate, non potendo disporre di uguali strumenti per esprimere un parere positivo o negativo. Questa ipersemplificazione del pensiero, che confluisce in un solo clic sul pollice su, o disincentiva ulteriori commenti che poi possono essere bersaglio facile per l’hater di turno, o ci porta, appunto, a esprimere il dissenso anche in modo molto forte nei commenti proprio perché quella è la nostra unica possibilità. Questo ha contribuito alla perdita, nel tempo, da parte delle persone che vivono i social network della capacità di confrontarsi nel modo giusto nel merito delle questioni”.

L’introduzione di un dislike potrebbe abbassare i livelli di odio on line?

A mio avviso sì. Senza voler semplificare il fenomeno e tenuto conto di mille altre sfaccettature che influiscono sul modo di comportarsi degli utenti, dall’analfabetismo funzionale di ritorno, alla crisi economica che si vive, credo che concedere agli utenti la possibilità di dissentire in modo netto e semplice con un dislike, implementando in questo modo un sistema ponderato di downgrade e penalizzazione dei contenuti che non ci piacciono, possa aiutare. Questo meccanismo lo ha descritto bene un utente su Reddit, un tale Tallica, che qualche tempo fa in un intervento sui social ha scritto: “Immaginate di essere un utente ignorante, razzista e bigotto impegnato a commentare qualcosa di osceno online. Potreste pubblicare un commento davvero offensivo per 18mila persone su 20mila, ma l’unica cosa che si vedrebbe sono i 2mila like da altrettanti idioti come voi. Questo trasmette il messaggio sbagliato: dice alle persone che osservano che quell’opinione è popolare, manca un bilanciamento. Aggiungete un’opzione dislike e improvvisamente quel commento mantiene sì i suoi 2mila like ma gli si materializzano a fianco anche 18mila dislike. Situazione che trasmette agli osservatori il messaggio che quel punto di vista non è affatto popolare e potrebbe farli pensare due volte a quello che dicono”. Detta in questo modo la questione ci sembra più chiara e ci aiuta a comprendere anche il perché i proprietari delle piattaforme, Zuckerberg in testa, non voglia introdurre un dislike. Cosa che renderebbe il confronto più pacato, meno violento ed eviterebbe alle persone di infilarsi in vere e proprie dispute digitali solo per esprimere un’opinione contraria.

Il dislike unico antidoto all’hate speech?

No sicuramente. Abbiamo già ottime leggi che andrebbero fatte rispettare, in tempi certi. E per quanto riguarda le piattaforme, non possiamo pensare che queste possano fare da filtro o censurare contenuti senza condividere in modo trasparente il funzionamento dei loro algoritmi o dei loro meccanismi di controllo o moderazione. Credo nessuno pensi di poter trasformare una piattaforma di social networking in uno pseudo vigile urbano le cui regole sono note solo in parte. Se c’è una cosa che dobbiamo chiedere ai grandi player è trasparenza.

Uno dei titoli dei libri da lei scritti riporta la frase: “i social network sono pieni di bambini: chi li protegge?” Come si proteggono i nativi digitali? Hanno davvero bisogno di protezione?

Sicuramente i ragazzi non possono essere lasciati soli nell’uso di qualcosa con la quale hanno confidenza ma che non conoscono. Credo che la cosa più importante e utile per accompagnare i ragazzi sia l’ascolto, la possibilità di parlare in diversi contesti, familiare e scolastico per esempio, del loro stare sui social network. Chiaramente per farlo bisogna sporcarsi le mani, ovvero essere presenti come educatori sui diversi social, conoscerli, praticarli, anche se non ci piacciono o li sentiamo distanti da noi. Solo in questo modo è possibile ristabilire un patto con i ragazzi e confrontarsi in modo aperto con loro.

Internet e i social network possono essere considerati strumenti di sostenibilità?

Internet è un bene prezioso da salvaguardare, mentre se guardiamo ai grandi player e alle piattaforme social non sfuggono alcune criticità: in primis quella legata alla iniquità fiscale. Ogni piattaforma, a mio avviso, dovrebbe contribuire in modo equo al territorio in cui vivono i propri utenti perché questo consentirebbe la giusta ridistribuzione dei proventi, che poi ogni Paese potrebbe decidere di investire in azioni mirate al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità ambientale o sociale. Dobbiamo trovare un modo per far contribuire le grandi multinazionali alle battaglie che stiamo portando avanti come singoli Paesi o a livello europeo. Dovremmo ripartire da questo per ragionare su modelli sostenibili.

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