257 anni per la parità di genere. E con il digitale?

di Stefano Epifani e Sonia Montegiove

257 anni. 257 lunghissimi anni sono quelli che ci vorranno, secondo la 14° edizione del Global Gender Gap 2020, per colmare il divario uomo donna in termini di partecipazione economica. Erano 202 nel report 2019.

95 anni sono necessari, invece, per colmare il divario di genere nella rappresentanza politica, dove le donne rivestono cariche politiche solo nel 25% dei casi.

Non va meglio sul fronte del lavoro, dove solo il 55% delle donne (di età compresa tra i 15 e i 64 anni) è impegnato nel mercato del lavoro rispetto al 78% degli uomini, né tanto meno su quello dell’innovazione e del settore IT, tanto che nel report si legge che “la più grande sfida che impedisce di colmare il divario economico di genere è la sottorappresentanza femminile nei ruoli emergenti”. Solo un 12% le donne che si occupano di cloud, un 15% le donne ingegnere che lavorano con i Big Data e un 26% le impegnate con l’AI.

Competenze e conoscenze in ambito STEM, delle quali tanto si parla come abilitatori di opportunità, sono possedute dall’1,4 % delle lavoratrici, contro il 5,5 % dei lavoratori. Dati confermati dal Women in Digital scoreboard dell’Unione Europea, secondo il quale il rapporto fra specialisti ICT è di 1 donna a fronte di 6 uomini, con donne che guadagnano quasi il 20% in meno rispetto alla loro controparte maschile. Nello scenario europeo più strettamente legato al digitale, l’Italia si posiziona molto in basso, insieme a Bulgaria, Romania e Grecia.

Per l’undicesimo anno consecutivo il primo Paese per parità di genere è rimasto l’Islanda. Tra quelli maggiormente migliorati il World Economic Forum cita Albania, Etiopia, Mali, Messico e Spagna. L’Italia è al 117esimo posto su 153 Paesi nel mondo per “Economic Participation and Opportunity”.

Eppure il goal 5 di Agenda 2030…

L’sdg 5 vorrebbe che “nessuna donna o ragazza rimanesse indietro” nei soli dieci anni che ci restano per raggiungere i diversi target previsti. Ma di strada ce n’è parecchia da fare secondo Un Women, che ha pubblicato “Progress on the sustainable development goals, the gender snapshot 2019”, il rapporto sui progressi del Goal 5 rispetto a tutti gli SDGs nel 2019. Volendo citare qualche numero, a livello mondiale le donne hanno il 4% di probabilità in più rispetto agli uomini di vivere in condizioni di estrema povertà e, nella fascia di età 25-54 anni, hanno più del doppio delle probabilità di essere disoccupate, specialmente dopo matrimonio o gravidanza. Infatti, poco più della metà (52,1%) delle donne tra i 25 ai 54 anni sposate hanno un lavoro, rispetto al 65,6% delle donne che sono single o non sposate. Il contrario vale per gli uomini: il 96,15% degli uomini sposati lavora. Se si arriva al goal 9, innovazione e infrastrutture, anche qui la partecipazione maschile sovrasta quella femminile, con solo un 28,8% di donne ricercatrici nel mondo.

Disparità, tra stereotipi e pregiudizi

La lotta per la parità di genere è una storia di parzialità e pregiudizi”. Il capo dell’Ufficio per i rapporti sullo sviluppo umano dell’UNDP, Pedro Conceição, ha riassunto in questo modo la situazione attuale presentando qualche giorno fa la ricerca “Tackling social norms: a game changer for gender inequalities”. Sulla base di questa ricerca, circa il 90% delle persone ha pregiudizi contro le donne: il 50% ritiene che gli uomini siano leader politici migliori e oltre il 40% pensa la stessa cosa dei dirigenti uomini. Il 28%, inoltre, pensa si accettabile che un uomo picchi una donna. Pregiudizi in ascesa negli ultimi dieci anni, tanto che la percentuale di donne e uomini in tutto il mondo con pregiudizi di genere da moderati a intensi è cresciuta dal 57% al 60% per le donne e dal 70% al 71% per gli uomini.

Come le tecnologie digitali possono contribuire alla parità di genere?

Il fatto che ci sia ancora molta strada da fare lo dimostra anche la scarsa capacità di contestualizzare il ruolo del digitale rispetto ai temi della parità di genere proprio di quelle istituzioni che se ne occupano o che dovrebbero occuparsene. È del 28 novembre scorso la dichiarazione di Saniye Gülser Corat, Direttore UNESCO per il Gender Equality, secondo la quale la conoscenza delle tecnologie digitali è utile per la parità di genere principalmente perché consente alle donne di difendersi meglio dai rischi del digitale, come il cyber harassment. Cosa tanto ovvia tanto vera, va detto, ma che rappresenta una semplificazione per riduzione così aberrante da essere paradossale, e che ricorda lo spot di qualche anno fa sull’AIDS: “se lo conosci lo eviti”. Ma il digitale non è una malattia che rischia di ucciderci. È piuttosto una opportunità da cavalcare.

Viceversa, si dovrebbe focalizzare l’attenzione sul fatto che le tecnologie digitali rappresentano portentosi strumenti di integrazione, ma non perché consentono alle donne di lavorare da casa (con il rischio di ghettizzarle ulteriormente), ma perché permettono a uomini e donne di liberare tempo per la famiglia. Ci si dovrebbe concentrare sul fatto che la tecnologia è un grande strumento di emancipazione perché facilita l’accesso all’informazione e l’informazione dovrebbe essere sinonimo di cultura, e la cultura dovrebbe rappresentare l’elemento cardine per l’esercizio dei propri diritti. Si dovrebbe puntare alla capacità delle tecnologie non solo di abbattere le differenze, ma anche e soprattutto di valorizzare le diversità, sperando che nella lotta per la parità di genere non si faccia lo stesso sbaglio che si è fatto per decenni con la cooperazione allo sviluppo, quando si pensava di “esportare” un modello economico e di società in zone del mondo ove quel modello non poteva funzionare. Sulla base di questa esperienza, dovremmo guardare alle tecnologie digitali non come strumenti per supportare lo sviluppo di un modello culturale esistente, ma come alleati nella difesa della diversità, culturale come di genere – di qualsiasi genere – in un’ottica per la quale il digitale, supportandoci nella costruzione di un nuovo senso per la società, ci permetta di immaginarla senza quelle barriere che proprio le tecnologie possono contribuire ad abbattere. Insomma, se la trasformazione digitale sta supportando un processo di cambiamento di senso della società, è proprio oggi che serve più che mai un enorme impegno perché questo nuovo senso non si porti dietro le distorsioni ed i bias di un vecchio senso che sappiamo sbagliato.

Come tutti possiamo contribuire al rispetto di genere?

E mentre il digitale può indubbiamente fare la sua parte, sarebbe un utile esercizio evitare il facile storytelling – tanto ricorrente in questi giorni – del telelavoro così adatto alle mamme che stando in casa possono dedicarsi completamente a bambini e anziani. Sarebbe opportuno sostituire con qualcosa di diverso l’altrettanto semplice narrazione della donna poco portata per la matematica e l’informatica perché “roba da maschi”. Sarebbe utile, anche nel linguaggio, rispettare le differenze di genere, farle emergere senza paura e retorica, senza penalizzare nessuno e nessuna. Sarebbe bello veder aprire un dibattito sull’intelligenza artificiale che già oggi prende decisioni “cibandosi” di dati “storti”, carichi di pregiudizi e stereotipi, che tendono a penalizzare proprio la popolazione già penalizzata, ovvero le donne nel caso del lavoro. Sarebbe utile e bello non leggere più titoli di giornale in cui si ringrazia il cielo per l’emergenza Coronavirus che impedisce alle donne di trovarsi a manifestare in occasione dell’8 marzo. Sarebbe stato bello avere una televisione pubblica capace di prendere una posizione forte di fronte a un conduttore che si permette di dire “lei sa stare un passo indietro”. Sarebbe bello, sì. Non impossibile.

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