Open Data Day: 50 sfumature di dati aperti per la sostenibilità

Oggi è l’Open Data Day ma, direbbe Alessandro Bergonzoni, noi no. Noi no, perché di dati aperti non si parla più molto e si pratica ancora meno. Eppure, l’apertura dei dati non solo presenta benefici economici, come riporta il report “The Economic Impact of Open Data: Opportunities for value creation in Europe“, pubblicato nel febbraio 2020, ma diventa strumento di sostenibilità. Leggendo i diversi goal di Agenda 2030 e i singoli target in cui questa è declinata, per ciascuno si riesce a immaginare come l’apertura dei dati da parte delle Istituzioni (e non solo) potrebbe contribuire con forza ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi.

A voler riportare alcuni dei numeri contenuti nel report The Economic Impact of Open Data, si legge come grazie all’apertura dei dati nel 2019 si siano avute, solo per fare alcuni esempi, 27 milioni di ore risparmiate nel trasporto pubblico e, di conseguenza, un effetto benefico sui costi del lavoro per la riduzione del tempo speso imbottigliati nel traffico; 5,8 milioni di tonnellate di petrolio equivalente risparmiato grazie alla riduzione del consumo di energia delle famiglie, con benefici evidenti per il goal 13; risparmi sui costi sanitari (sdg 3), grazie a servizi migliori e ottimizzati, e ultimo, non certo per importanza, un risparmio dei costi del settore pubblico pari a 1,1 miliardi di euro soltanto riferito alle spese di traduzione dei testi per i quali è stato possibile ricorrere a traduzione automatica grazie alla messa a disposizione delle informazioni in formato aperto.

L’open data – afferma Giorgia Lodi, informatica tra le più esperte in Italia sul temaviene indicato come lo strumento principe per la valorizzazione del patrimonio pubblico sia in norme italiane che europee. Forse però troppo spesso la gestione dei dati aperti è stata vista come processo a parte rispetto ai normali processi interni della PA. Lo stesso Open Data Barometer rilevava proprio questo aspetto nel suo ultimo rapporto. Il risultato di questa pratica è avere processi di creazione e pubblicazione di dati aperti non sostenibili nel tempo. E dire che gli open data potrebbero essere un formidabile strumento anche ripensare ai tanti processi delle PA in ottica più moderna, per incentivare sviluppo economico e trasparenza. Mi ha colpito, di recente, visto proprio il momento critico che viviamo, un esempio: Visualize No Malaria. Il progetto consiste di uno strumento online, creato dal Ministero della Salute dello Zambia in collaborazione con l’organizzazione sanitaria PATH e la Tableau Foundation, che utilizza l’analisi dei dati aperti e la localizzazione per eliminare la malaria. Migliaia di volontari hanno mappato centinaia di migliaia di chilometri quadrati del mondo colpito dalla malaria, trasformando il modo in cui gli operatori sanitari di aree colpite agiscono sui loro dati. Il miglioramento della raccolta e dell’uso dei dati ha quindi portato alla riduzione dell’85% dei casi di malaria segnalati e a una riduzione del 92% dei decessi dovuti alla malaria nella Provincia meridionale dello Zambia dal 2014 al 2017. E penso che questo esempio valga più di tante parole: abbiamo bisogno di dati aperti di qualità generati attraverso processi sostenibili”.

Qualche esempio di Open Data per la sostenibilità

Parlando di risparmio energetico, il report UE riporta il caso di Opower, che afferma di risparmiare 2 miliardi di dollari in bollette a livello globale fornendo alle persone informazioni sul proprio consumo di energia e raffrontandolo con quello di “famiglie simili”. Questo è possibile grazie all’analisi degli open data messi a disposizione dal Governo americano, quali quelli dei consumi rilasciati dal Residential Energy Consumption Survey (RECS), letti insieme a quelli dello US Census Bureau, utili a comprendere la combinazione di diverse fonti di energia usate, che consente a Opower di fornire informazioni personalizzate ai singoli clienti.

Se si guarda al settore dell’agricoltura, e quindi ai goal 1 e 2, si può citare l’esempio del Global Biodiversity Information Facility (GBIF), una rete internazionale di soggetti che fanno ricerca finanziata dai Governi il cui obiettivo è fornire a chiunque, ovunque, un accesso aperto ai dati su tutti i tipi di vita sulla Terra. Questo per mettere a disposizione dei soggetti che si occupano della conservazione della biodiversità dati, standard e strumenti open source che consentano di condividere informazioni su dove e quando le specie sono state registrate, facendo confluire in questa grande banca data aperta anche foto di smartphone geotaggate condivise da appassionati naturalisti di tutto il mondo.

Guardando all’aspetto emergenze, l’apertura dei dati di tipo geografico aiuta a salvare vite umane. Stabilire la posizione esatta di una persona, infatti, non sempre è scontato: la mancanza di disponibilità della posizione del chiamante si verifica, in genere, in meno del 10% delle chiamate, ma non è così in tutti i Paesi del mondo. Per questa ragione l’apertura delle mappe diventa fondamentale per realizzare progetti come GoodSAM, nel Regno Unito, che tramite la tecnologia GPRS consente a chi ha una emergenza di salute di avvisare i primi soccorritori vicini al luogo in cui si trova, avendo la possibilità di essere assistito in attesa dell’arrivo di un’ambulanza.

Ha ancora un senso, dunque, parlare di Open Data?

Un senso gli Open Data ce l’hanno e ce l’avranno sempre di più” – afferma Carlo Piana, avvocato esperto di diritto digitale. “I dati aperti non sono solo una fonte di occasioni per creare economie nuove basate sulla conoscenza, per rendere efficienti, per consentire al pubblico come al privato di trovare modi nuovi per sfruttarli a vantaggio di tutti. Un esempio è l’open Data Hub di Bolzano, un progetto di impostazione radicale per portare i dati dell’Alto Adige a disposizione di tutti. I dati aperti sono anche un modo per esercitare un legittimo controllo democratico sulle amministrazioni, che spesso costringono invece a defatiganti FOIA per dati che dovrebbero essere resi pubblici sin da subito. È di due giorni fa la notizia che come Copernicani abbiamo ottenuto un’importante pronuncia del Tar del Lazio che ha pienamente riconosciuto il nostro diritto di avere i dati sulla presenza televisiva dei politici in formato utilizzabile, e non dovendoci fidare solo delle (a volte bizzarre) aggregazioni che fa AGCOM. Ma alla fine ci sarà voluto un anno, e ciò non è tollerabile. Infine, proprio in questi giorni, la libera accessibilità ai dati virologici ed epidemiologici potrebbe aiutare ad affrontare assai meglio l’ermergenza. Potrebbe…”.

Ma è a quel ‘potrebbe’ che si deve porre grande attenzione” continua Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute ed autore del libro Sostenibilità Digitale. “Oggi si continua a fare grande confusione tra termini e concetti che dovrebbero essere molto chiari e distinti, almeno a politici, amministratori ed operatori dell’informazione. E invece si confondono con grande disinvoltura (e spesso, temo, malafede) termini come open data e big data, ad esempio. Con il risultato di creare cortine di fumo che non solo fanno scontare agli open data problemi e potenziali colpe dei big data (si pensi alla privacy) ma fanno sì che il concetto di apertura venga usato, talvolta, letteralmente contro il cittadino. E così Paesi come la Germania, tanto per fare un riferimento all’attualità, si rifiutano non solo di fornire alcuni dati aggregati in merito ai tamponi fatti per il Coronavirus, ma persino di indicarne il numero totale, difendendosi dietro un incomprensibile riferimento alla privacy dei cittadini. Per non parlare di quando il concetto di ‘apertura’ viene usato non a favore del cittadino, ma – al contrario – contro di esso. O almeno contro il framework dei diritti umani che è alla base di Agenda 2030. Che è, sempre con riferimento a COVID-19, quello che sta succedendo in Corea, dove con il pretesto della salute pubblica vengono pubblicati, ad esempio, i dati nominativi dei malati con tutti i loro spostamenti. Il concetto di ‘apertura’, in una civiltà sempre più connessa, diventa a sua volta sempre più centrale. L’apertura dei dati pubblici, anonimizzati nel rispetto della privacy del cittadino, può e deve diventare sempre di più strumento di crescita e di sviluppo. Può e deve diventare, persino, uno strumento di contrasto allo strapotere delle piattaforme, ma il rischio è che paradossalmente si stia sempre di più perdendo la dimensione culturale di quell’open government di obamiana memoria senza la quale quella degli open data è una battaglia persa in partenza“.

I dati aperti sono stati impiegati in mille modi diversi: per aiutare a pianificare città più intelligenti a Rio de Janeiro, semplificare la risposta alle emergenze nelle Filippine, mappare l’epidemia di Ebola per salvare vite umane in Africa occidentale e aiutare i genitori a valutare il rendimento scolastico in Tanzania. Di Open Data c’è bisogno non solo di tornare a riempirsi la bocca per fare DataWashing. Di Open Data c’è bisogno di tornare a parlare per far comprendere alle persone che disporre di dati aperti è un diritto al quale non possiamo rinunciare.

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