6 lezioni apprese sull’uso del digitale anti COVID-19

Contenere COVID-19 con una semplice app è il sogno di tutti. Una utopia più che un sogno, visto che un’app da sola (e questo è ampiamente dimostrato dai fatti oltre che da svariate pubblicazioni in merito) non basta certo a contrastare la diffusione del virus. Per chiarirsi ulteriormente le idee si può leggere il report pubblicato dall’Ada Lovelace Institute dal titolo COVID-19 Report: No green lights, no red lines”, che vuole aiutare Governi e amministratori nell’implementare tecnologie digitali basate sui dati utili a gestire la pandemia e nel giudicare quali rischi sono accettabili per garantire la salute pubblica.

La domanda di partenza è una di quelle da un milione di dollari: come contenere COVID-19 in modo rapido ed efficace, con un impatto minimo sulla salute, sulle economie, sulle società e sugli individui. A lockdown finito e con il timore che il virus torni ad essere incontenibile anche dove la diffusione si è rallentata di molto, si può fare una riflessione approfondita sul ruolo che giocano le tecnologie digitali e sul difficile equilibrio tra libertà individuali, raccolta di dati e tutela della salute pubblica. “Non ci sono luci verdi o linee rosse ben delineate – viene sottolineato nel report – ma spunti di riflessione su come si possa ricorrere al digitale per mettere in campo misure necessarie a contenere il virus, proteggere e preservare la società e salvare vite umane”.

Quando un’app non può bastare

Nel report diffuso dall’Ada Lovelace Institute viene rimarcato il fatto che, nonostante la tecnologia solitamente svolga un ruolo importante anche nella salvaguardia della salute, le app “anti COVID” realizzate e promosse da diversi Paesi da sole non bastano a contenere la pandemia. E quando si parla di app non ci si riferisce soltanto alle app di tracciamento dei contatti (come l’italiana Immuni), ma anche ad app che possono certificare l’immunità o lo stato di salute implementate in alcuni Paesi. App che, come evidenziato nel report, portano con sé il rischio di forme di monitoraggio pubblico, con gravi ripercussioni sulla società. Per questo, il report suggerisce di analizzare bene il tipo di raccolta dati che si va ad implementare e a valutare con grande attenzione l’opportunità di conservare dati davvero preziosi.

Le tecnologie digitali anti COVID-19 – si legge nel rapporto – saranno efficaci solo se adottate da un numero elevato di cittadini. Ma questo richiede che gli strumenti tecnici e le decisioni politiche adottate alla base dello strumento tecnico siano visti dalle persone come soluzioni accettabili e proporzionate al pericolo per la salute pubblica che si può correre. Distribuire oggi soluzioni sbagliate potrebbe precludere la possibilità di ricorrere in futuro a strumenti digitali effettivamente in grado di contenere la diffusione del virus”.

6 lezioni apprese sull’uso del digitale anti COVID

Il report mette in evidenza 6 punti importanti sui quali focalizzare l’attenzione e che sono il frutto di una riflessione più vasta legata all’esperienza di diversi Paesi nel mondo.

1. La fiducia non riguarda solo i dati o la privacy. Per essere affidabile, la tecnologia deve essere efficace ed essere vista come una buona soluzione di un problema da affrontare.

2. La categorizzazione degli individui può essere riduttiva e priva di significato. La questione dell’identità “assegnata” alle persone semplicemente andando ad evidenziare un particolare legato allo stato di salute, per esempio esprimendo solo la parola “immune” o “non immune”, rischia di generare pericolose categorizzazioni delle persone.

3. I sistemi di monitoraggio e gestione delle identità in sanità pubblica devono essere visti come applicazioni giustificate dall’emergenza, da poter usare in un tempo definito e proposte alla cittadinanza spiegandone l’appropriatezza e la necessità di adozione.

4. Gli strumenti digitali scelti devono proteggere le persone da errori, danni e discriminazioni e non possono essere influenzati da pregiudizi.

5. Le app devono essere valutate come parte del sistema sanitario in cui sono incorporate: l’intero sistema deve essere affidabile, non solo i dati o la tecnologia.

6. Le tecnologie non sono neutre.

Quali i rischi legati al ricorso di public health identity systems?

I sistemi PHI, ovvero di Public Health Identity, utilizzano dati di salute privata verificati per essere analizzati e usati per fini legati alla tutela della salute pubblica, e possono anche generare una certificazione pass/fail o un punteggio di rischio dinamico e personalizzato basato su tali dati. Alcuni sistemi PHI possono collegare i dati a un individuo utilizzando una forma di identificazione biometrica e classificare in questo modo gli individui in base alle metriche sanitarie o al rischio di infezione o trasmissione COVID-19 per poterlo usare negli accessi all’occupazione, alla mobilità, ai viaggi e all’interazione sociale, consentendo o negando l’accesso a diversi tipi di spazi pubblici e privati in base allo stato di salute di un individuo.

Chiaramente questo tipo di soluzioni presentano rischi evidenti per la limitazione delle libertà delle persone. Il report mette in evidenza le preoccupazioni rilevate anche da parte dei cittadini per la possibilità di mettere le persone in “scatole” predefinite sulle quali non hanno il controllo e la libertà di definire ed esprimere la propria identità. Molte delle persone coinvolte nella ricerca presentata dal report, inoltre, hanno condiviso le preoccupazioni circa l’accuratezza delle tecnologie biometriche e di health identity. Ne sono una prova i sistemi di riconoscimento facciale, non ugualmente efficaci in termini di genere e tonalità della pelle, per esempio.

Quello che spiace di più – sottolinea Stefano Epifani, Presidente del Digital Transformation Institute è che molti dei rilievi evidenziati nel report non possono lasciare stupiti, essendo le ovvie conseguenze di azioni che sono state compiute nel più totale disinteresse degli impatti sulla sostenibilità sociale delle soluzioni identificate da parte di Istituzioni ed esperti. Disinteresse tanto più colpevole quanto più tali impatti erano stati ampliamente preannunciati da più parti della società civile e numerosi studiosi di diritti umani. Creare la contrapposizione tra privacy e sicurezza evidenziando come la privacy fosse una ‘fisima’ (testuale), ad esempio, ha generato nel nostro Paese un processo di polarizzazione del tutto dannoso, che ha contribuito ad abbassare il già basso livello di adoption. Come sempre, quando non sapevamo cos’altro fare, abbiamo trasformato la tecnologia – una tecnologia – in un vero e proprio ‘totem’ che avrebbe dovuto salvarci tutti. Salvo rendersi conto che poi in effetti così non è e che la tecnologia non può nulla da sola. Speriamo che questa lezione sia utile per la gestione delle prossime fasi della pandemia”.

Rischio esclusione

Altro rischio importante evidenziato dal report quello legato ad accessibilità e inclusione. Non tutte le persone, infatti, sono in grado di accedere o utilizzare una tecnologia allo stesso modo, in particolare quando sono coinvolte caratteristiche legate alla salute o biometriche. Una forma di esclusione è da considerarsi anche quella riferita a persone non alfabetizzate digitalmente e che potrebbero non avere accesso ai dispositivi necessari per interagire con determinati sistemi.

Discriminazione e inclusione sono argomenti distinti, ma vengono deliberatamente riuniti in questa analisi per riflettere sulla forte preoccupazione dei cittadini rispetto alla possibilità di diverso impatto che costringe ad avere una attenzione alta in fase di progettazione e distribuzione delle soluzioni. Laddove queste tecnologie sono utilizzate per affrontare COVID-19 – che colpisce tutti in modo significativo – i rischi di escludere le persone maggiormente vulnerabili o creare nuovi livelli di discriminazione e stratificazione non sono quelli che la società può permettersi”.

Il rapporto si conclude con un invito al coinvolgimento della cittadinanza, in quanto questo “non solo garantisce un migliore processo decisionale, ma contribuisce anche a progettare tecnologie proporzionate, affidabili e in definitiva più efficaci”.

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