Dalla scuola l’economia dell’inganno e la responsabilità (degli altri)

L’Italia è un buffo paese.
Fin da piccoli veniamo invitati ad ingannare, a fare i furbi e a cercare di aggirare le regole.
Chi è più furbo, ha più accettazione sociale, ha più successo, ha più reputazione.

Nel periodo di lockdown tale imprinting ha assunto modalità imbarazzanti e la manifestazione più eclatante è avvenuta nella scuola, che è diventata smart.
I ragazzi, espulsi dalla scuola, hanno svolto le lezioni attraverso i sistemi di comunicazione e le varie piattaforme. In tale contesto alcuni genitori hanno inteso fare i compiti e le verifiche dei propri figli.
Attenzione non aiutare a fare i compiti, bensì effettivamente fare i compiti, tanto erano a casa insieme ai figli.
Tutto ciò al fine di migliorarne il rendimento scolastico e i voti.

Ma che male c’è?

Quale generazione, quale formazione viene data a questi ragazzi in questa maniera, o meglio con questa mentalità, che si è manifestata nel suo miserabile squallore?
Si sono instillati i principi dell’economia dell’inganno.
Attraverso piccole furbizie è possibile risultare più bravi, avere maggiori voti rispetto a coloro che onestamente (scioccamente per gli ingannatori) mostrano le proprie capacità quali sono.
Si insegna a doparsi fin da piccoli.
In tale imbarazzante marasma il principio di tengo famiglia, i figli sono piezz’e core prevale, e fa emergere i furbetti: quelli bravi emigreranno all’estero, facendo fortuna poiché sono allenati alla sconfitta e a lottare contro le avversità.

Ma ciò non è stato sufficiente

I nostri ragazzi hanno dovuto apprendere che gli insegnanti, i loro maestri, i loro modelli, hanno abdicato al loro ruolo per timore, per burocrazia o per rappresaglie sindacali.
Chi, come la maestra che a Prato ha inteso continuare nella sua missione nei prati e subito ha preso gli strali del locale dirigente sindacale poiché “quell’iniziativa estemporanea dell’insegnante correva il rischio di far passare da vagabonde (nullafacenti, ndr) le colleghe” e poi perché la decisione era stata presa in barba a ogni regola sulla sicurezza.
La didattica a distanza è iniziata in ritardo (principalmente per problemi di GDPR e di responsabilità che nessuno voleva prendersi), peraltro senza avere né la percezione né la cognizione che in Italia esistano zone in cui non arriva connessione, senza consapevolezza che esistono famiglie in cui l’informatizzazione è bassa o ove mancavano i PC (tra genitori in smart working e figli a lezione).

In aggiunta a questo marasma, la scuola ha il terrore di riniziare

Il Governo ed il ministro, anche in questo caso, non ne hanno azzeccata una, addirittura si è parlato di bi-scuola, con studenti in misura alternata per ridurre il numero dei presenti in classe, suscitando ilarità nel ricordo della famosa bi-zona di Oronzo Canà, il modulo 5-5-5 (L’allenatore nel Pallone con Lino Banfi).
Orbene, sono stati creati protocolli per tutto, persino per discoteche ed attività ludiche, ma non per la scuola.
Presumibilmente perché la scuola è stata vettore di contagio.
No.
Perché i ragazzi sono categorie a rischio.
No.
Perché è attività non strategica?
No.

La verità è che avendo definito la contrazione del CoViD quale “infortunio”, in assenza di qualsivoglia protocollo preciso (anche perché addirittura l’OMS è ondivago), il principale obiettivo è scaricare responsabilità, dal ministro al bidello, ponendo in essere l’ennesimo esercizio difensivo dalle future richieste danni (ed esposti alla Magistratura) in caso di contagi a scuola, sulla pelle dei nostri ragazzi.
Il bello, che ad ascoltare tutti, tutti hanno ragione: ognuno dal proprio punto di vista.

Tutti ragione, ma il sistema non funziona: proprio come il nodo di Gordio.

L’unica soluzione, se il sistema non è in grado di risolvere il problema, è fare come Alessandro Magno e troncare il tutto.
L’autonomia scolastica (che ha moltiplicato i dipendenti e gli amministrativi) non può essere solamente un simulacro per poi andare incontro alle esigenze sindacali in barba ai principi professati e senza mai assumersi responsabilità o aggredendo chiunque cerchi di emergere da questa palude.
Poi, pur comprendendo gli insegnanti ed i sindacati, sovviene una riflessione: non è mica un obbligo essere assunti e lavorare nel pubblico impiego.
Chi non se la sente, chi ha timore, chi ha paura, non è necessario che insegni!
Può far benissimo altro, si troveranno insegnanti che vogliono svolgere questo ruolo.
I medici, gli infermieri, le forze dell’ordine non hanno potuto scegliere: quello il loro lavoro, quelli i loro rischi.
Deferenza per l’impegno, come quella del soldato che va al fronte: i disertori della Pubblica Amministrazione (e della Pubblica Istruzione) come tali devono essere trattati.
Non è possibile rifiutarsi di entrare in classe, persino per fare gli esami di terza media o di maturità perché non esistono le condizioni minime di sicurezza, sollevando ondate di problemi solo per ritardare o sabotare qualsivoglia rientro in servizio (per altro già presente in tutto il settore privato).
L’atteggiamento fintamente prudente presente nel nostro paese nasconde proprio questa tendenza ingannatoria che ammorba tutta l’Italia.
Secondo un recente studio, il 94% dei dipendenti pubblici ritiene positiva l’esperienza dello SmartWorking.
Purtuttavia il parere dovrebbe essere chiesto agli utenti, sull’efficacia e sull’efficienza della PA in questo periodo, dato che in quel mondo nel pubblico ipersindacalizzato e dove il controllo sulla produttività è attenuato, emerge che per i più imbroglioni tale metodologia sia stata confusa con smart-guardoilbimbo o smart-rifaccioiletti, oltre ad essere resa impossibile per carenze infrastrutturali, deficienze organizzative e moderno luddismo.

Il Paese affonda nelle piccole furbizie

Nei piccoli abusi di potere che originano dalla formazione che questo Paese ha inteso dare ai suoi cittadini.
Formazione che poi viene estesa a tutto, rendendo bravo l’imprenditore che evade, bravo il verificatore che inventa imponibile laddove non ve ne è, bravo il giudice promosso sulla base del numero delle Sentenze, il tutto valutato sulla base di parametri distorti e di comodo.

L’emergenza è quindi un nuovo patto sociale

Un nuovo contratto sociale fatto dai cittadini alla pari, senza la ricerca di comodi nemici, di capri espiatori, delle continue minacce: “Se calano i contagi è merito nostro, se aumentano è colpa vostra”.
Allla fine, invece di concentrarsi sui banchi a rotelle, sulle museruole trasparenti, sulle distanze fisiche, forse era preferibile concentrare l’attenzione sull’individuazione di un modo realmente efficace di svolgere didattica digitale, sulla sua sostenibilità e sulla formazione di docenti e studenti.

Il mondo si evolve, ma qui pare tutto fermo al neolotico digitale.

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