Sostenibile, sostenibilità: la lingua come rappresentazione coerente d’un’opera

Chi fa il ‘detrattore’ per mestiere, pur apparendo sgradevole e, talora, anche odioso, in realtà, svolge un ruolo d’impagabile utilità sociale, specie se il focus è costituito da una ricerca scientifica. Se, infatti, il destinatario del tentativo di denigrazione, nella qualità di ricercatore, non è costretto a misurarsi affannosamente coi propri conflitti, allora può sfruttare la provocazione per riesaminare attentamente il proprio contributo facendo valere il seguente metodo: assumere come valida a priori la congettura denigratoria e, di conseguenza, ricostruire a ritroso e interamente la propria ricerca, non altrimenti che se facesse una rilettura del testo all’araba. È vero: è una questione di pace interiore non di facile possesso, ma può rivelarsi preziosa e feconda. Ciò che ne risulterebbe, infatti, sarebbe una messa a sistema di tesi e antitesi che, molto di rado, un autore riesce a fare col proprio lavoro. In alcune circostanze, purtroppo, questo sforzo dialettico si fa assai complesso, non solo per i presupposti cognitivi, ma anche e soprattutto per quelli epistemologici. Una di queste riguarda i concetti di sostenibilità e sostenibile, un sostantivo e un aggettivo apparentemente ‘astratti’ e che, secondo alcuni, sarebbero adottati per lo più a scopo di copertura di una documentazione e uno studio lacunosi o del tutto inadeguati. L’effetto primario è indubbiamente quello della proiezione: colui che ignora determinati percorsi scientifici tende a proiettare sugli altri la propria incultura per compensazione. Di conseguenza, quando si leggono o si sentono pronunciare i termini sostenibilità e sostenibile, non sapendo che, nell’ultimo trentennio, dal 1987 a oggi, parecchi autorevoli studiosi si sono occupati della materia e trascurando l’amplissima tradizione romanza, in base alla quale certe voci si sono formate e affermate, si crede per lo più, come s’è anticipato, che le parole siano usate a caso. Il web delle interazioni è anche e, molto di frequente, soprattutto questo.

In effetti, come abbiamo detto, la faccenda è complessa; e già l’uso di questo aggettivo, complesso, c’impone la necessità di abbracciare e, inevitabilmente, mettere insieme più parti. Complĕxu(m), infatti, è il participio passato del verbo latino complĕcti, che significa, per l’appunto, abbracciare. Questa fatica fu fatta, per la prima volta, nel 1987 o, diversamente, in quell’anno, certe fatiche socio-economiche, programmatiche e scientifiche ebbero compimento. La Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED – World Commission on Environment and Development) pubblicò il rapporto Brundtland, un documento che prese il nome dalla coordinatrice del progetto, Gro Harlem Brundtland, e in cui si introdusse proprio il concetto di sviluppo sostenibile. La definizione che se ne diede fu la seguente: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Sulle prime, parrebbe un espediente retorico, come ce ne sono tanti, concepito a bella posta per pacificare gli animi. A ben vedere, invece, si tratta della risultanza d’un’indagine poderosa, ben fatta e che porta con sé i criteri linguistici dell’Europa latina.

D’istinto, l’espressione “sviluppo sostenibile” fa pensare quasi esclusivamente all’ambiente, che di certo rappresenta un tema centrale, ma è bene far notare che la Commissione mise subito in relazione la qualità dell’ambiente col benessere delle persone. In una forma preliminare, noi aggiungiamo tre concetti: quello di durata, quello di opportunità e quello di operosità, ovverosia dell’essere attivi in un progetto senza scadenza. Stefano Epifani, nel proprio libro, Perché la sostenibilità non può fare a meno della trasformazione digitale, sottolinea esattamente questo: “(…) che ciò che invece sfugge – e i risultati possono essere davvero disastrosi – è che, quando si parla di sostenibilità, non è sufficiente parlare dell’ambiente, ma si devono mettere in gioco altre variabili che corrispondono ad altrettanti sistemi” (2020, p. 145).

Da parlanti italiani, abbiamo anzitutto il dovere di consultare i testi fondamentali del nostro lessico, così da circoscrivere con una certa precisione l’area semantica entro la quale ci moviamo. Nel Nuovo De Mauro, sostenibile è “ciò che può essere sostenuto, convalidato, mantenuto, sopportato”. Esplicazione simile è quella della Treccani: “ciò che si può sostenere”. Entrambi i redattori, nella fraseologia, non mancano di menzionare l’ambiente; il che ci fa già comprendere quanto una lingua sia una sorta di documento d’identità della società. Procedendo oltre con le consultazioni, scopriamo una più ampia area di significato nel Devoto-Oli, in cui la sostenibilità è descritta come “la possibilità di essere mantenuto o protratto con sollecitudine e impegno”, laddove l’aggettivo sostenibile significa “suscettibile di essere mantenuto o protratto con sollecitudine e impegno”. Qui, emergono, già, nettamente i concetti proposti in precedenza: durata, opportunità, operosità. Adesso, tra i doveri intellettuali, riconosciamo quello di rispondere a una specie di domanda archetipica, quella del “che cos’è?”. In altri termini, che cosa sono, nella nostra lingua, sostenibile e sostenibilità? E da dove vengono, per così dire? Cominciamo col dire che si tratta di due parole che otteniamo per suffissazione, cioè tramite l’aggiunta di un affisso a una base lessicale. Nel caso in specie, sostenibile è un aggettivo deverbale, che trae origine dal suffisso latino -ĭbilis e, nella forma derivata compiuta, indica la possibilità, mentre sostenibilità è un nome deaggettivale strutturato sul suffisso latino –tātem e corrisponde a un che di astratto. Come si può notare, la lingua latina è dominante: non avrebbe potuto essere altrimenti, giacché l’italiano, come il francese, lo spagnolo e il rumeno, è una lingua romanza, una lingua cioè generatasi durante un processo di trasformazione di quella latina.

Alle origini, infatti, troviamo il verbo sustinēre, un composto di sub e tenere (CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999) che arricchisce in modo significativo la nostra analisi e ci avvicina sempre di più alla comprensione dei concetti in questione. I valori delle parole e la loro forza ‘comunicativa’ dipendono dalle occorrenze e, di conseguenza, dall’uso funzionale che se ne fa. A tal proposito, seguendo le indicazioni fraseologiche di Campanini e Carboni (1995), siamo andati alla ricerca di quelle fonti in cui si attesta un certo uso di sustinēre. In Cicerone, leggiamo:

Olympiae per stadium ingressus esse Milo dicitur, cum umeris sustineret bovem. Utrum igitur has corporis an Pythagorae tibi malis vires ingeni dari? Si dice che Milone entrò per lo stadio ad Olimpia reggendo (portando) un bue sulle spalle. Pertanto, tu preferisci che ti siano date queste forze del corpo o le forze dell’ingegno di Pitagora? (Cato maior de senectute 10, 33, trad. nostra).

Est igitur proprium munus magistratus intellegere se gerere personam civitatis debereque eius dignitatem et decus sustinere. È dunque compito proprio del magistrato comprendere che egli rappresenta lo Stato e che deve perciò sostenerne la dignità e il decoro (De officiis I, 124, trad. nostra).

Neminem vestrum praeterit, iudices, omnem utilitatem opportunitatemque provinciae Siciliae, quae ad commoda populi Romani adiuncta sit, consistere in re frumentaria maxime; nam ceteris rebus adiuvamur ex illa provincia, hac vero alimur ac sustinemur. O giudici, a nessuno di voi sfugge che tutta l’utilità e la convenienza della provincia di Sicilia, che è stata annessa a vantaggio del popolo romano, consiste soprattutto nella fornitura di frumento; infatti, con altri beni siamo aiutati da quella provincia (ci gioviamo di quella provincia), (ma) senza dubbio con questa siamo nutriti e mantenuti (In Verrem III, 5, trad. nostra).

Nelle tre occorrenze riportate, che naturalmente non sono le uniche rilevate nella letteratura latina, si può finalmente abbracciare la complessità di un fenomeno linguistico attraverso la sua estensione semantica. Per denotazione, infatti, dobbiamo designare tre categorie ciceroniane: la forza, la morale, la sopravvivenza; e nessuna di esse sembra distante dalla scelta del 1987. Pertanto, ciò che, in prima istanza, sembrava un ambiguo e vago gioco di parole, a ben riflettere e alla luce di certe acquisizioni storico-linguistiche, diventa una definizione pertinente e sagacemente motivata.

Se poi ci dedichiamo a una traduzione elementare dei ‘nostri’ termini nelle principali lingue romanze, traduzione che chiunque può ottenere, in questo caso, anche tramite un grezzo traduttore, ci rendiamo conto che la scelta dei redattori del rapporto Brundtland equivale all’assunzione di un compito programmatico decisivo e irreversibile. In francese, sostenibilità e sostenibile possono rendersi, rispettivamente, con durabilité e durable: non a caso, durabilité environnemantale, sostenibilità ambientale. In rumeno, con durabilitate e durabil, mentre, in spagnolo, con sustentabilidad e sostenible. In sostanza, di là dall’approfondimento filologico, che sarebbe richiesto per questa comparazione, anche chi non è esperto di linguistica romanza, può rilevare, in modo superficiale, la prossimità grafica e fonetica delle parole. Qui, ci limitiamo semplicemente – si badi bene! – a stimolare l’apertura del campo percettivo del lettore. L’intero corpus verbale di “ciò che è sostenibile” implica, dunque, anche la durevolezza, l’efficace durata dell’opera, che si traduce in un’opportunità estesa sia a chi ‘agisce’ sia alle generazioni a venire.

Le voci inglesi, cui giungiamo ora non per trascuratezza, bensì per coerenza metodologica, non si discostano affatto dalla glossa fin qui trattata. Secondo il Collins (1995), sustainable è, ancora una volta, ciò che può essere sostenuto; la qual cosa sembra non aggiungere né togliere alcunché alle riflessioni fatte. Se, tuttavia, ampliamo l’indagine mediante il Cambridge Dictionary (1995), accediamo a un’utile e determinante fraseologia: “able to continue without harming the environment” (in grado di continuare senza danneggiare l’ambiente) e “able to continue for a long period” (in grado di continuare per un lungo periodo). In entrambi i casi, il segmento semantico forte ed essenziale è quello della continuità, in linea semantica con la sostenibilità dell’Europa latina.

Un’eventuale incursione nella lingua greca ci permetterebbe di recuperare anche i caratteri della completezza perché i greci ‘antichi’ erano addirittura più scrupolosi dei latini e non si accontentavano di un solo termine per esprimere sostenere: στηρίζω (sterìzo, mi tengo dritto) βοητέω (boetèo, alzo su colonne) σῴζω (sòzo, custodisco, salvo) τρέφω (trèpho, nutro, mantengo) sono solamente alcune delle occorrenze, riscontrate in Omero (IL., 21, 242), Esiodo (TH., 779),  Senofonte (HELL., 1, 6, 7) et al. e con le quali possiamo risalire all’uso di sostenibilità. Non andiamo oltre in tal senso perché saremmo costretti a istruire un diverso studio dell’argomento.

Siamo sempre più capaci, però, di sfruttare appieno l’eventuale pungolo dei detrattori o il genuino impulso critico d’un qualsivoglia lettore circa l’applicazione dell’aggettivo sostenibile alla grammatica. In realtà, la risposta è già contenuta nella ricostruzione che è stata fatta. Se la lingua è la rappresentazione coerente d’un’opera, allora essa, in ogni propria componente, ‘dichiara’ sempre la compartecipazione e la coesistenza dei parlanti. La lingua è il racconto e, in parte, il resoconto dell’evoluzione di un popolo. L’Europa che s’è intravista, infatti, è la Romània, l’Europa latina, un’area linguistica unitaria entro la quale, oggi più che mai, comprendiamo il dovere della congruenza e della pertinenza. In altri termini, in specie nel medium digitale, dove già la semplice presenza può mutarsi in equivoco, errore o fake, ogni asserzione dev’essere continuamente ripensata e, se necessario, ‘sovrascritta’.

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