I ‘gruppi digitali’ e il confine violato: la metafora che domina la relazione

Perché i confini naturali, solitamente posti al primo incontro, vengono meno per i "gruppi digitali" sui social network?

“Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! /
tre volte dietro a lei le mani avvinsi, /
e tante mi tornai con esse al petto /”
Dante, Purg., II, 79-81

 

Incontrare qualcuno per la prima volta sembra avere un significato preliminare, regolativo ed essenziale: “non posso toccarti”. La nostra pelle costituirebbe, perciò, il primo confine dell’incontro, genererebbe un limite ontologico che neppure la stretta di mano potrebbe violare. L’altro, sul cui sguardo fissiamo il nostro, non può accarezzarci il viso e viceversa, allo stesso modo in cui non usiamo il dorso della mano per sfiorargli un braccio. Ne facciamo ripetutamente esperienza: gradita o meno: poco importa. In sostanza, abbiamo interiorizzato una sorta di prossemica rituale, a tal punto che la concezione dello spazio e delle distanze, almeno in apparenza, non è messa in discussione. Nel linguaggio dell’impegno sociale, infatti, finiamo col raccontare, per lo più tacitamente, questa privazione. ‘Diciamo’ tutto, ma non nominiamo alcunché di specifico. Non osiamo dire “voglio toccarti” né interroghiamo il nostro interlocutore con “posso toccarti?”. Diversamente, ma con pari intensità, non esprimiamo il rifiuto: “non ti toccherei mai”. Siamo, dunque, delle persone ben educate e possediamo un’atavica competenza linguistica, istruiti da una limpidissima metafora ontologico-esistenziale: “il toccare è unione”; dalla qual cosa traiamo il divieto “non toccare!”.

Eppure, la prossimità è affetto. Che s’intende? Tanto più siamo vicini a qualcuno quanto più gli siamo legati o possiamo condizionarne il comportamento o – ancora – possiamo esserne condizionati. A tal proposito, George Lakoff e Mark Johnson, in un’opera del 1980, Metaphors We Live By, giungono a sostenere addirittura che esistono delle metafore di orientamento in funzione delle quali ‘organizziamo’ il nostro linguaggio e il nostro comportamento. Siamo soliti dire, per esempio, in caso di tristezza, “sono giù”, come se il nostro stato d’animo dovesse avere un preciso posizionamento geometrico e, in questo modo, fosse visibile e tangibile. La comprensione di un’affermazione del genere è scontata. Non ci soffermiamo affatto a riflettere sull’avverbio di luogo, il cui uso tuttavia non potrà mai garantirci, se isolato, un’adeguata immagine del malessere. Le parole – è evidente – non sono valide solo per i significati, ma anche e soprattutto per il senso che acquisiscono all’interno di una frase. Di conseguenza, bisogna chiedersi quale sia il legame di senso tra la tristezza e l’indicazione di un punto nello spazio.

Secondo gli autori summenzionati, noi ricorriamo inconsapevolmente e meccanicamente proprio alle già introdotte metafore di orientamento, le quali sono elementi costitutivi di un vero e proprio sistema metaforico-concettuale: giù-su, centro-periferia, davanti-dietro e così via.

Ma c’è un altro tipo di concetto metaforico, che non struttura un concetto nei termini di un altro, ma organizza un intero sistema di concetti con riferimento l’uno all’altro. Li chiameremo metafore di orientamento, poiché la maggior parte di essi ha a che fare con l’orientamento nello spazio: su-giù, fronte-retro, on-off, profondo-superficiale, centro-periferia (LAKOFF, G., JOHONSON, M., 1980, Metaphors We Live By, trad. nostra, University of Chicago Press, London)

Sulla base di queste metafore concettuali, la nostra lingua diventa una mediazione di senso, una figura dell’aggregazione. “Siamo avanti anni luce”, “Quell’uomo è sempre davanti a tutto”, “Tu sei sempre al centro dei miei pensieri” et similia sono delle testimonianze semplici e inconfutabili del nostro modo di comunicare e sono possibili perché possediamo degli archetipi del dire. HAPPY IS UP – scrivono gli autori di Metaphors We Live By – è la metafora concettuale di riferimento grazie alla quale, quando diciamo I’m feeling DOWN, ci capiamo (Ibid., p. 15).

Dunque: la pelle è un confine; il toccare è unione; il benessere è in alto et cetera. Sui social network la metafora concettuale “la prossimità è affetto” trova applicazione e conferma massive. Quando, per esempio, qualcuno annuncia la morte d’una persona cara o mostra la propria convalescenza da un letto d’ospedale, i consensi si moltiplicano a dismisura e l’attestazione d’affetto ottiene un successo eccezionale in termini di like e commenti: “ti sono vicino”. Questa vicinanza è reale, specie se proviene da chi non ha mai ‘incontrato’ l’autore del post-tweet? L’autore, nella maggior parte dei casi, si prodiga ‘amorevolmente’ per ringraziare tutti. Non si fa alcuna fatica, naturalmente, a giudicare irreale questo legame emotivo; non ci vuole di certo il parere d’uno scienziato della materia per capirlo. La questione è un’altra. Sembra che il confine di cui abbiamo parlato sia stato frettolosamente violato. L’invasione del campo percettivo altrui è legittimata a priori perché il luogo ‘invaso’ è stato reso accessibile dal ‘banditore’. Com’è possibile? Abbiamo bisogno di collocare parole e frasi in un rassicurante punto attorno a noi, stabiliamo confini altrettanto rassicuranti, noi stessi siamo la prima entità separata e, poi, all’improvviso, abbandoniamo tutto per un like o un commento in più?

Sperimentiamo molte cose attraverso la vista e il tatto, come se avessero confini distinti e, quando le cose non hanno confini distinti, noi stessi proiettiamo i confini su di esse (Ibid., p. 58)

In verità, vogliamo stare vicini e toccarci o vogliamo stare lontani? L’uno e l’altro. I social network, quale che ne sia il giudizio d’utilità, sono una continua violazione del limite, un’alterazione dello spazio, una trasposizione forzosa della prossemica, un estenuante rimando di senso.

Affidandoci ancora una volta a Lakoff e Johnson, possiamo fare un altro passo avanti. Ecco: un “passo avanti”, cioè un’altra metafora del flusso comunicativo! Tra i numerosi esempi che riportano nel libro più volte citato, troviamo “La vita mi ha ingannato”. Sappiamo bene che l’entità “vita” non ha la facoltà d’ingannare, eppure non resistiamo al bisogno di trasformarla in agente, così da ottenere una sorta di riscatto compensatorio del nostro disagio. Ciò è possibile perché, inconsciamente, LA VITA È UN’ENTITÀ, come lo sono la MENTE, l’INFLAZIONE et cetera. Molto di frequente, leggiamo “l’euro ha divorato i miei risparmi”. In questo caso, l’euro diventa un’entità, prende il posto dell’inflazione. Nessuno si prende la briga di studiare il corso del paniere dei prezzi al consumo e verificare la curva di valore di certi prodotti. Nello stesso tempo, tendiamo a portare ciò che non è fisico sul piano di ciò che è fisico: eventi, azioni, attività e stati sono compresi così, cioè per mezzo di metafore concettuali, e comunicati per mezzo di metafore convenzionali.

Gli scopi umani tipicamente richiedono di imporre dei confini artificiali che rendano i fenomeni fisici e discreti, come siamo noi: entità delimitate da una superficie (Ibid., p. 25)

Ne dubitiamo? È legittimo farlo, ma abbiamo il dovere di sottoporre a una verifica empirico-linguistica il nostro stesso dubbio. La frase “siamo fuori dei guai” è semplice e comprensibile. È bene chiedersi, però, come sia strutturata. Per l’ennesima volta, siamo costretti a tenere conto di un dentro e di un fuori, di un confine materiale dichiarato, messo nitidamente in parola, ma di fatto inesistente. Se lo stato non fosse inteso come un vero e proprio contenitore, se la vita non fosse un’entità e le nostre idee non fossero oggetti, noi non saremmo affatto in grado di riferire a qualcuno che siamo fuori o dentro.

Noi comprendiamo qualcosa sempre per mezzo di qualcos’altro. La metafora domina la vita, la relazione, il linguaggio, ma è anzitutto nel pensiero e nell’azione (Cfr. Ibid., pp. 3-4). In generale, il nostro linguaggio è vivo grazie alle figure. Le figure istruiscono il linguaggio. Se qualcuno ci chiede di mostrargli la foto di nostra figlia e noi gli mostriamo la foto di un braccio, il richiedente ne sarà soddisfatto? Nient’affatto! Ha bisogno di vedere un volto. Ciò significa che un certo tipo di richiesta è basato sulla metonimia IL VOLTO PER LA PERSONA (Cfr. Ibid., p. 37). Quante volte abbiamo sentito dire “s’è scolata una bottiglia di vino”? In altri termini, s’è usato il contenitore per il contenuto.

Tutte queste istruzioni ci permettono di istituire quella che Lakoff e Johnson chiamano gestalt dimensionale, null’altro se non la forma della nostra struttura conversazionale, qualcosa di cui non siamo consci, ma che contiene le condizioni di scambio reale dei messaggi. Quando siamo assieme a qualcuno e parliamo, rispondiamo automaticamente ai seguenti interrogativi: “dove si svolge la conversazione?”; “qual è il fine?”; “chi partecipa?” e così via (Cfr. Ibid., p. 83). Adesso, dobbiamo riflettere sul fatto che, sebbene l’impostazione retorico-figurativa del nostro discorso possa essere spesso causa di errori, fraintendimenti e, più in generale, imprecisione linguistica, noi riusciamo a ricavare da essa una specie di difesa psico-linguistica. In fondo, ciascuno di noi sa di possedere solamente delle verità di fatto e sa pure che non si tratta di alcunché di originale: “dove si trova la nostra abitazione”, “cosa possiamo mangiare”, “se preferiamo i cani ai gatti”. Di conseguenza, consapevole della propria limitatezza ‘filosofico-epistemologica’, protegge sé stesso e traveste di belle immagini la realtà.

Nel momento in cui apriamo la porta del social network, dimenticando che non è quella di casa, tutte le nostre banali e piccole, ma necessarie, verità vengono risucchiate dalle presunte grandi verità, schiacciate dall’entità superiore, quale che sia: la politica, l’economia, la letteratura et cetera. A quel punto, dobbiamo dire qualcosa d’importante, ma, il più delle volte, non ci rendiamo conto che l’unità funzionale di significato grazie alla quale comunichiamo qualcosa è la metafora, vale a dire un rimando di senso, laddove il social network scelto è, a propria volta, un ulteriore rimando di senso, un contenitore quale metafora della metafora, una metafora della conversazione stessa. Di conseguenza, i parametri difensivi saltano, i confini naturali diventano più che sfumati. La foto d’una persona sorridente è UP, per così dire e rispettando il registro di Lakoff e Johnson. Non c’è alternativa possibile di senso e significato. Non ci si chiede se quel sorriso nasconda una sofferenza atroce. Allo stesso modo, si è lesti nel condannare qualcuno con implacabile violenza.

Così, finiamo coll’essere delatori delle nostre stesse azioni o, meglio, delle azioni che proiettiamo sugli altri, ma che sono indesiderate secondo la morale comune. Queste dichiarazioni di denuncia diventano per noi un supplemento di esistenza.

Perché gli account, in genere, sono colmi di buoni propositi e pervasi da spirito umanitario o consacrati alla nobiltà dell’arte e della poesia, tanto che non si fa fatica a sentirsi presto anime nere o, comunque, uomini inetti e spregevoli, a meno di adeguarsi? Perché la morte di un cantante di cui nessuno, fino al giorno prima, si occupava viene celebrata con elogi d’ogni genere? Il fenomeno è presto spiegato: i gruppi digitali sono ormai orfani del confine e non riconoscono l’identità delle cose. Se Pilato avesse chiesto al popolo di Facebook chi salvare tra Gesù e Barabba, il popolo di Facebook avrebbe detto “a morte entrambi!”.

La falsa bontà viene covata a lungo per poi rivelarsi letale o diffondersi come virus e pandemia. Dunque: mediamente, si passa dalla compassione generale all’accanimento generale e, in entrambi i casi, la causa perde il proprio fascino cedendo il posto all’esecuzione. Condannare è facile, mentre non è altrettanto facile assolvere. L’assoluzione non esiste, non è contemplata. Il contrario della condanna per l’opinione pubblica è l’esaltazione, che naturalmente non proviene né da un processo né da un’assoluzione.

Le categorie non sono né fisse né uniformi. Sono definite da prototipi e somiglianze familiari con prototipi e sono modificabili nel contesto, a seconda delle varie finalità (Ibid., pp. 165-166)

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