SARS-CoV2 è fra noi da anni. Sconfiggiamo il Covid-19 con la data science

È sempre più grande il numero di studi e ricerche volti a dimostrare che il Covid-19 sia tra noi da molto più tempo rispetto a quanto riportato dai resoconti ufficiali. Quanto può essere fatto in futuro, anche grazie alle tecnologie, per intercettare tempestivamente l'insorgere di nuovi eventuali fenomeni pandemici?

Oltre 100 milioni di contagiati e più di 2,2 milioni di morti: questo il bilancio – ancora molto provvisorio – della pandemia Covid-19 che sta devastando l’intero pianeta.

Altrettanto precaria è la data effettiva del suo inizio. Sono infatti sempre più numerosi gli studi scientifici che dimostrano che SARS-CoV2 è certamente fra noi da molto più tempo di quello stimato dai resoconti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui i primi 27 casi di “polmonite con eziologia sconosciuta” sono stati diagnosticati il 31 dicembre 2019 nella zona dell’ormai famigerato mercato del pesce Huanan, nella città cinese di Wuhan.

Covid-19 ha saputo celare con cura le sue tracce, ma non le ha potute cancellare

Nel marzo scorso, una squadra multidisciplinare di virologi, epidemiologi e altri ricercatori di prestigiose istituzioni di Stati Uniti, Regno Unito e Australia, coordinati dallo Scripps Research Institute in California, hanno sollevato i primi dubbi sulla rivista Nature.

Kristian G. Andersen e collaboratori hanno dimostrato che questo virus “non può essere il prodotto di una manipolazione intenzionale escludendo, quindi, una presunta origine artificiale e con essa il sospetto di un rilascio accidentale (oppure criminale) nella popolazione umana.

Rimanevano solo altri due possibili scenari per spiegare la comparsa del SARS-CoV2 tra gli esseri umani: un trasferimento zoonotico (cioè un salto di specie da animali serbatoio all’uomo) del virus già bello e pronto per far danni, oppure il passaggio interspecifico di un antenato del virus che poi si è evoluto all’interno della specie umana in modo prima silenzioso e poi sempre più letale.

Ma il primo degli ultimi due scenari è di difficile dimostrazione perché, fino a ora, nessuno dei coronavirus che colpisce altre specie può essere considerato sufficientemente simile a SARS-CoV2 da permettere di ipotizzare una parentela col “nostro” virus.

Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” diceva Sherlock Holmes nel romanzo Il Segno dei quattro. E, infatti, quello che resta in questo caso è che il virus abbia realizzato il salto di specie verso l’uomo molto tempo fa, in una versione di sé stesso meno contagiosa e letale che avrebbe così avuto l’opportunità di diffondersi inosservata tra noi, forse per anni interi. Su questo argomento, forse qualcuno ricorda una mia tesi consegnata ad aprile 2020 a Stanford University e riportata proprio qui in luglio.

Alcune conferme dalla ricerca nazionale e internazionale

Ad agosto 2020, un team guidato da M. Anwar Hossain ha pubblicato su Nature una analisi genetica delle sempre più numerose varianti di SARS-CoV2. Dall’esame di 2492 campioni prelevati in tutto il mondo a marzo 2020, il team ha scoperto ben 1516 variazioni delle sequenze di nucleotidi nell’mRNA del virus.

La presenza di una estrema differenziazione già all’inizio della primavera scorsa dimostra che il momento in cui il primo virus progenitore si è rivelato in grado di infettare esseri umani deve essere necessariamente collocato molto prima dell’inizio “ufficiale” della pandemia.

Anche nel nostro Paese, investito in pieno dalla prima ondata, il mondo scientifico non si è fermato a guardare: Giuseppina La Rosa e altri colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità hanno avuto la brillante idea di mettere in coltura e poi analizzare i campioni di acque reflue prelevate da diversi impianti di depurazione urbana. I risultati, pubblicati su Science of the Total Environment, dimostrano che le proteine del virus erano presenti nei campioni prelevati il 29 gennaio 2020 a Bologna, ma anche in campioni ottenuti il 18 dicembre 2019 dai depuratori di Milano e Torino. Questi risultati rendono evidente che il virus circolava liberamente nel nord Italia almeno 65 giorni prima della scoperta dei primi 16 casi individuati a Codogno il 21 febbraio 2020.

A confermare questa necessità di riavvolgere il nastro della pandemia per trovarne l’inizio, sono arrivati altri due studi: Silvia Angeletti con i colleghi dell’Università Campus Biomedico di Roma, e Gianguglielmo Zehender assieme ai colleghi dell’Ospedale Sacco di Milano, hanno pubblicato due studi indipendenti sul Journal of Medical Virology in cui ricostruiscono le mappe filogenetiche della diffusione della pandemia in Italia.

Le conclusioni di entrambi gli studi – pubblicati e disponibili rispettivamente già da marzo e da aprile 2020 – evidenziano il forte sospetto che il virus sia entrato clandestinamente diverse settimane prima del suo debutto ufficiale nella società italiana.

Nel numero di Emerging Infectious Diseases appena uscito, un altro gruppo multidisciplinare guidato da Elisabetta Tanzi ha pubblicato una analisi simile a quella svolta sulle acque reflue. Ma questa volta gli scienziati hanno preso di mira una collezione di tamponi orofaringei raccolti negli ultimi mesi del 2019 per una ricerca sul morbillo. È risultato positivo al coronavirus un campione prelevato da un bimbo di 4 anni della periferia di Milano, che già il 21 novembre 2019 accusava una rinite con forte tosse e un rash cutaneo: sintomi tipici del morbillo e – ma lo scopriremo solo dopo – di Covid-19.

Di nuovo un team tricolore, stavolta dell’Istituto Nazionale Tumori, firma un articolo uscito a novembre 2020 su Tumori Journal. A partire da settembre 2019 e fino a marzo 2020, quando lo studio è stato interrotto forzosamente a causa del lockdown, l’equipe stava conducendo una ricerca sulla possibilità di insorgenza di cancro polmonare su un set di campioni ematici prelevati da 959 individui privi di sintomi tumorali in tutto il Paese. Quando più avanti gli stessi campioni sono stati analizzati nuovamente, stavolta per individuare l’eventuale presenza del virus negli stessi, è emerso che il sangue di 111 persone (l’11,6%!) rivelava la presenza di anticorpi specifici per il SARS-CoV2. Di questi, ben 23 erano stati prelevati a settembre 2019. Quindi, in tutta Italia, già da fine estate 2019 c’erano decine di persone asintomatiche che, per avere il tempo di sviluppare le immunoglobuline specifiche rilevate nello studio, avevano necessariamente contratto il coronavirus almeno alcune settimane prima.

Per fugare ogni dubbio, un’altra doppietta di studi spagnoli – Albert Bosch e colleghi dell’Università di Barcellona su Applied and Environmental Microbiology e Walter Randazzo e colleghi dell’Università di Valencia su Water Research – hanno ritrovato tracce di mRNA di SARS-CoV2 nei campioni prelevati dalle fogne di Barcellona (una delle città spagnole più colpite dalla pandemia) e di cinque città della Murcia (una delle regioni meno colpite) rivelando in entrambi gli studi che i membri di queste comunità stavano inconsapevolmente immettendo nelle fogne frammenti di coronavirus molte settimane prima che le autorità sanitarie locali diagnosticassero i primi casi di insorgenza della malattia. In particolare, il più antico campione contenente il genoma del virus è stato raccolto dalle acque della capitale catalana addirittura il 12 marzo del 2019.

Questo tipo di studi permette non solo di tracciare la storia della pandemia in atto, ma fornisce validi strumenti per segnalare l’arrivo di nuove ondate pandemiche prima che arrivino le più precoci identificazioni ospedaliere.

Forse innescati dalla pubblicazione delle ricerche già citate, in queste ultime settimane stanno crescendo a ritmi esponenziali gli studi scientifici basati sull’analisi di campioni prelevati nel 2019 e fortunatamente ancora conservati in qualche archivio. Praticamente ogni tipo di campione che possa ragionevolmente essere entrato in contatto diretto o indiretto con esseri umani, dal sangue alla saliva alle acque di scarico, è potenzialmente in grado di rivelarci tracce del virus e offrirci una data e un luogo di prelievo ben definito.

Un aiuto dalla data science

Ma un team interdisciplinare – e di nuovo tutto tricolore – è andato anche oltre: Michelangelo Puliga, Pietro Panzarasa e colleghi hanno pubblicato pochi giorni fa su Nature una sofisticata applicazione di data science. Una accurata scansione con tecniche di intelligenza artificiale dei post su Twitter seguita da una rigorosa analisi statistica ha dimostrato che nell’inverno 2019-2020, mentre le autorità sanitarie si affannavano a stringere inutili cordoni sanitari, in tutta Europa erano evidenti le manifestazioni di polmoniti anomale. Confrontando i dati degli ultimi inverni, i data scientists hanno individuato proprio in corrispondenza dell’inverno 2019-20 una esplosione di conversazioni fra persone che si scambiavano preoccupazioni e informazioni sulla frequenza e sulla anomalia di polmoniti da cui erano afflitti loro stessi o persone vicine a loro. E la geolocalizzazione di queste conversazioni Twitter mostrava che le aree a maggiore densità di scambi su quelle strane polmoniti, corrispondevano proprio a quelle dove Covid-19 è esplosa con maggiore virulenza.

Questo studio dimostra come la data science applicata ai social media può individuare manifestazioni epidemiche quando ancora sembrano solo anomalie di strane polmoniti non curabili ma non correlate fra loro.

L’importanza di comprendere i segnali: la tecnologia può aiutare

L’analisi comparata di questi e di numerosi altri articoli scientifici sottoposti a peer review ci dice – e ce lo diceva già dalla primavera 2020 – che in questo pianeta interconnesso non hanno alcun senso i cordoni sanitari, le regioni a colori e i lockdown per tentare di disegnare perimetri che circoscrivano aree pulite separandole da aree infette, piccole o grandi che siano. Quando i sistemi sanitari più sofisticati sono in grado di correlare fra loro una moltitudine di segnalazioni anomale e far scattare l’allarme pandemia, ormai i buoi sono scappati da tempo – in tutto il mondo – ed è inutile chiudere i recinti. L’unica strategia dimostratasi decisiva è stata limitare il più possibile i contatti interpersonali, con il distanziamento e con l’uso (corretto) delle mascherine. Esattamente la stessa strategia adottata per arginare l’epidemia spagnola di un secolo fa.

Eppure, in questo stesso secolo la ricerca medica ha compiuto enormi balzi avanti imprimendo una gigantesca, dolorosa, a volte disperata accelerazione internazionale nell’ultimo anno. Ora, sono numerosi i centri ricerche che puntano a creare e distribuire vaccini, sistemi diagnostici e cure mediche efficaci per prevenire, individuare e curare Covid-19.

In conclusione, non dimentichiamo che questa emergenza sanitaria è arrivata come una tempesta perfetta proprio quando tutto il mondo era impegnato nella corsa per raggiungere gli obiettivi di Agenda 2030 e riuscire a contenere la catastrofe climatica cui stiamo andando incontro. Oggi stiamo stringendo i denti per confermare gli obiettivi e per rilanciare il nostro impegno per raggiungerli, nonostante tutto.

In particolare, abbiamo visto come l’Intelligenza artificiale ci viene in soccorso per puntare all’SDG 3: “Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età” permettendoci un efficace monitoraggio delle malattie e per intercettare tempestivamente i nuovi fenomeni pandemici.

Nel 2019 il disastro umano ed economico mondiale era già dietro l’angolo, e mille segnali lo annunciavano chiaramente, se solo li avessimo saputi cogliere. Questa durissima lezione servirà per prepararci alla prossima pandemia?

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