“Impara l’inglese in pochi giorni”: pubblicità ingannevole e consapevolezza

In un mondo dominato sempre più da promesse impossibili da mantenere e messaggi illusori, ci ritroviamo ad essere vittime e allo stesso tempo possibili carnefici. Ed è qui che entra in gioco la sostenibilità digitale, aiutandoci a ritrovare consapevolezza in noi stessi attraverso l'uso di strumenti digitali

Immagine distribuita da Pixabay con licenza CCO

La mostruosità non altera qui nessun corpo reale, non modifica in nulla il bestiario dell’immaginazione; non si nasconde entro la profondità di nessuno strano potere. 

M.Foucault, Le parole e le cose

“Hello, my name is Francesco. I come from Italy”: se questo è sufficiente perché si dichiari di saper parlare l’inglese, allora, sì, non è difficile imparare l’inglese in pochi giorni. D’altronde, “the pen is on the table”; è lì da tanto tempo che nessuno sa più chi l’abbia abbandonata sul tavolo e, soprattutto, per quale motivo l’abbia scelta come simbolo dell’apprendimento. Insomma, la penna è diventata un oggetto inamovibile e intoccabile, una sorta di sacra reliquia, con buona pace degli scolari. Se, tuttavia, si passa da on ad above o a qualche altra differenza tra preposizioni, le cose si complicano. Per non parlare di below o beyond et similia, che si scontrano sistematicamente con under e over! In sostanza e senza ulteriori giri di parole, gli Italiani sono collocati al ventiduesimo posto in Europa per conoscenza della lingua inglese con un EF EPI score di 55.77: un grottesco trionfo di sciatteria e millanteria, specie se consideriamo che i paesi esaminati sono trentaquattro!

Sarebbe appena il caso di rinunciare a dire “speech”, se si può dire tranquillamente “discorso”. Ed è ridicolo, oltre che patetico dire “sono busy”, quando si può, altrettanto tranquillamente, dire “sono occupato”. Preferite dire “ho una call”, anziché una “telefonata”? Si capisce: serve a darsi un tono professionale, a conferirsi prestigio, sebbene questo stile ci faccia comprendere immediatamente perché la penna sia rimasta sul tavolo così a lungo. Di questo passo, diverrà un fossile da museo della lingua. Non aggiungiamo altro in merito alla commediola perché il focus di questo contributo è di tutt’altra natura. Da parecchio tempo, ormai, circolano sui social network strepitosi e confortanti inviti allo studio della lingua inglese, di cui abbiamo dato anticipazione minima nelle prime due righe: “Impara l’inglese in pochi giorni”, “In soli 8 giorni”; alcuni sono così sfrontati da pubblicizzare la propria mercanzia con lo slogan “inglese in tre giorni”. Tre giorni? Perché tutto questo tempo? Naturalmente, il frasario di certi imbonitori si arricchisce con allettanti e, insieme, subdoli interrogativi: “Sei stanco di memorizzare noiose regole di grammatica?”. Dunque, il processo di apprendimento sarebbe semplicissimo e rapidissimo.

È triste dover deludere qualcuno, ma, secondo gli standard internazionali, forniti dagli istituti di ricerca (Foreign Service Institute’s School of Language Studies, Cambridge Assessment English exam board et al.) occorrono almeno 25 settimane di studio e non meno di 200 ore di lezione per ottenere il livello B1. Per passare al B2, invece, ne servono più di 500 (ore). Insomma, s’intuisce facilmente che chi ci vuole vendere un ‘pacchetto weekend’ offre unicamente uno specchietto per le allodole. Null’altro! Leggendo il Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145, concepito in attuazione della direttiva europea, scopriamo quanto segue:

Pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.

Di fatto, il testo è inequivocabile. Ci sono tutti gli elementi d’allarme, per così dire, per sollecitare un intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: in questo come in tanti altri casi. Fare in modo che la gente s’illuda di potere avere “gli addominali scolpiti in poche settimane” non costituisce un messaggio ‘meno ingannevole’.

Il nostro cervello è dotato di circa cento miliardi di cellule nervose ed è assodato che ciascuna di queste cellule si lega con almeno altri diecimila neuroni attraverso gli impulsi elettrici che passano dagli assoni e provocano nelle sinapsi la secrezione dei neurotrasmettitori.

“In risposta agli stimoli che provengono dall’ambiente il cervello può attivare una serie di circuiti, dando luogo a una serie di pattern di eccitazione anatomicamente e cronologicamente correlati, che vengono registrati, immagazzinati e successivamente ‘richiamati’ sulla base di un semplice assioma, originariamente enunciato da Donald Hebb: neuroni che vengono eccitati contemporaneamente una prima volta tenderanno a essere attivati insieme anche in seguito” (SIEGEL, D. J., 1999, The developing mind, trad. it. di L. Madeddu, 2001, La mente relazionale Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, ed. Raffaello Cortina, Milano, p. 26).

Questa teoria, ormai bell’e accreditata, ben formulata e scientificamente documentata, mette in pericolo, per fortuna, la salute mentale dei venditori di fumo, giacché ciò che, un tempo, guadagnava la dignità ontologica di ‘pratica commerciale’, all’insaputa dei più, oggi, non può più essere riesaminato altrimenti che con l’espressione sostenibilità, ovverosia sostenibilità digitale come consapevolezza di sé e delle proprie relazioni attraverso l’uso degli strumenti digitali.    

Se d’improvviso diciamo “mi manca”, che cosa vogliamo comunicare? Non abbiamo un’emiplegia destra né un’afasia di Broca, eppure formuliamo un’espressione apparentemente tangenziale e priva di un preciso legame col piano della realtà. Chi ci ascolta ci chiede: “Cosa ti manca?”. Ma noi, che, per esempio, siamo imbestialiti, non glielo diciamo. All’espressione “mi manca” ‘manca’ il soggetto grammaticale, cioè un oggetto della nostra percepita privazione, ma nessuno può capirci, fuorché il contesto sia sufficiente a colmare la lacuna del soggetto grammaticale. Ebbene? L’ipotesi è che talune forme di scrittura pubblicitaria facciano costante riferimento a un amplissimo contesto di desideri e bisogni inappagati. È necessario chiedersi, a questo punto: cosa consente ai significati ‘contestuali’ di essere promossi come validi, dal momento che ciascuno di noi può usare lo stesso verbo, assegnando a esso il significato simbolico che più si addice a una determinata situazione emotivo-comunicativa? In questo modo, la logica della comunicazione si spacca in due violentemente.

“I sostantivi sono spesso usati per nomi di cose, e i verbi per azioni, ma dato che la mente umana può evocare la realtà in molti modi diversi, i sostantivi e i verbi non sono limitati a questi usi.” (PINKER, S., 1994, The Language Istinct, trad. it. di G. Origgi, 1997, L’istinto del linguaggio, Mondadori editore, Milano, p. 96).

“Ciò che viene immagazzinato nel cervello non sono ‘cose’ reali, ma probabilità di attivazione di determinati profili neurali” (SIEGEL, D. J., 1999, op. cit., p. 27).

Lo si accetti o meno, non esiste un concetto generale di qualcosa: foglia, cane o albero. Esiste una visione della cosa per inferenze, che, successivamente, mostriamo e, nello stesso tempo, disperdiamo nel giudizio, giacché ogni processo inferenziale determina fallibilismo (Cfr. ECO, U., 1997, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, p. 49). L’essere proprio della cosa è quel che la cosa è nell’uso che di essa si fa.

Il problema della comunicazione e, in generale, della conoscenza, è il seguente: da qualche parte e in qualche modo, bisogna pur cominciare. Dopo aver cominciato, resta che il cominciamento venga appreso e posseduto come modo di qualcosa. In quanto alle opere dell’ingegno scritturale, per esempio, c’è, anzitutto e giocoforza, una pagina che, prima ancora che il lettore se ne serva, cambia colore passando dal bianco al nero di righe e battute simmetriche e allineate. Qual è il senso dell’apprendere e possedere un modo del cominciamento? Il colore? Di esso poco si discute perché molto poco c’interessa. L’incipit, però, in un romanzo, in una poesia o in qualsiasi altra forma d’arte scritturale, dovrebbe già interessarci molto. In esso siamo ‘divinamente’ costretti a reperire gli indizi della totalità del messaggio, senza, nostro malgrado, poterne intuire le dinamiche e rimettendoci al poetico dominio di qualcosa d’indecifrabile, un extralogico criterio di selezione.

Purtroppo, il nostro furore ermeneutico ci condiziona tanto da delegittimare questa proprietà della cosa, cosicché diventiamo o vittime di quell’insensata e insana chiamata all’azione “impara l’inglese in tre giorni” o produttori di qualcosa di simile e, di conseguenza, carnefici. In ciascuna delle due circostanze, perdiamo di vista, per così dire, il cominciamento e ci condanniamo alla rimozione. Come abbiamo appreso dalla lezione di Donald Hebb, infatti, “neuroni che vengono eccitati contemporaneamente una prima volta tenderanno ad essere attivati insieme anche in seguito”.

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