La DAD non è un accidente della pandemia

La DAD non è un’invenzione o un accidente della pandemia, ma è ed era già nella storia della formazione: ma come l'hanno vissuta e continuano a viverla gli studenti universitari? La risposta in questo approfondimento firmato Marco Stancati

Sento in giro predizioni, anatemi e sentenze sulla DAD, più recentemente DID, da addetti ai lavori ma più frequentemente dai tuttologi da tastiera.

Troppo spesso viene vista come un corollario della pandemia, identificata con gli strumenti tecnologici attraverso i quali viene erogata, accusata di essere uno strumento di tortura di massa (studentesca) e di destabilizzazione dei docenti oppure, al contrario, esaltata come tecnologia salvifica a prescindere.

Entrambe le posizioni sembrano ignorare il legame inscindibile tra tecnologia e società: “Le caratteristiche intrinseche di una tecnologia non ne determinano automaticamente usi ed effetti: tecnologia, società, storia, cultura, istituzioni, contenuti, meccanismi di distribuzione, politica ed esperienza sono dimensioni interconnesse. Insomma: chi si agita per gli effetti determinati da Zoom, dai tablet e dalle LIM sugli studenti, forse non riflette abbastanza sugli usi possibili di tali strumenti” (Paolo Costa in “Didattica a distanza: disadattamento, frustrazione, opportunità”)

Come pure in troppi sembrano ignorare che la DAD non è un’invenzione o un accidente della pandemia, ma è ed era già nella storia della formazione. Una bella storia.

In una trattoria toscana con un gigante

Erano gli anni 90 del secolo scorso quando ricevetti, come direttore della Sede provinciale dell’Inail, una lettera dal sindaco di Pitigliano che mi chiedeva candidamente di aiutarlo a rimettere a posto la posizione assicurativa “un po’ confusa” del Comune. “Guarda – pensai – questo sindaco si chiama come il maestro di Non è Mai Troppo Tardi”. Non era un’omonimia, era proprio lui.

Non è mai troppo tardi” fu la trasmissione della Rai, la DAD della Rai che contribuì negli anni 60 ad alfabetizzare l’Italia: in quegli anni nel nostro Paese unificato un secolo prima non si parlava ancora la stessa lingua. Un trentino e un siciliano non si capivano, i sardi che col servizio militare obbligatorio si ritrovavano a Roma, a Milano, a Padova avevano grandi difficoltà a usare quella lingua “del continente”, appresa sui banchi, diversa dalla lingua madre che parlavano in famiglia e nell’isola.

Alberto Manzi fu l’assoluto protagonista per nove anni, dal 1960 al ’68, di quella stagione eroica: quella trasmissione non fu solo una felice sperimentazione di DAD, fu un processo determinante insieme all’intero palinsesto dell’allora unica emittente Rai per dare finalmente una lingua comune agli abitanti della penisola.

Con Alberto ci incontrammo subito, in tutti i sensi, e continuammo a sentirci anche quando io fui trasferito a Firenze. Aveva 70 anni allora Alberto, il “cheguevarista” che portò la sua filosofia educativa anche in Amazzonia correndo grandi rischi (“io sparavo solo parole e progetti, ma facevano paura”) ed era una miniera di ricordi e prospettive insieme.

Mi confidò che il suo modello di formazione a distanza l’aveva progettato studiando alcuni esperimenti radiofonici in America latina oltre che negli Usa e in Australia: la televisione gli apparve subito come una tecnologia dalle possibilità molto superiori.
In una trattoria di Pitigliano ipotizzammo una possibile strategia per prevenire gli infortuni sul lavoro diffondendo una cultura della sicurezza. Il titolo sarebbe stato: NON è MAI TROPPO PRESTO.

Nel 1999 fui chiamato a dirigere la Comunicazione dell’Inail. Ma il “maestro dei due mondi”, come l’avevo ribattezzato, purtroppo era morto alla fine del 1997.
Il senso però di quel nostro progettare non andò perso: è tutto nelle campagne che realizzai per la sicurezza sul lavoro nei successivi dieci anni e nei primi esperimenti di formazione a distanza del corpo ispettivo regionale dell’Inail, utilizzando la rete interna di teleconferenza.

La Dad quindi come forma sincronica di didattica a distanza non è spuntata come un fungo con il cataclisma della pandemia, ma aveva già una lunga storia. Una storia che passa per la radio prima, poi per la televisione, in seguito per le reti di teleconferenza e ora per il web attraverso una molteplicità di piattaforme sempre più versatili, con le quali abbiamo acquistato via via maggiore familiarità.

Per quanto riguarda poi le forme asincrone, che non prevedono una contemporaneità di presenza, la storia è ancora più antica: Gutenberg con la tecnologia del libro a stampa non ha messo in moto una gigantesca formazione a distanza, “on demand” diremmo oggi?

Dadaista fancazzista

Perché voi professori dadaisti volete stare a casa a fare poco e niente dicendo due cazzate in webcam e non prendervi manco il disturbo d’andare in classe. Siete passati da tre mesi di ferie a tutto l’anno in ferie. Dovete andare tutte a……, figlie di……!” L’affermazione è stata solo ripulita dalla terminologia meno proponibile, ma facilmente intuibile.

Due cose mi colpiscono: innanzitutto “dadaisti”, perché è singolare questa sovrapposizione a distanza di un secolo tra i profeti dei valori istintivi e i docenti dell’era pandemico-digitale!  E poi il passaggio dall’iniziale maschile plurale inclusivo (dadaisti appunto) all’insulto tutto al femminile (figlie di…). A urlare queste affermazioni è un corpulento di mezz’età, braccia alzate a sospingere gli insulti, con una mascherina improbabile quanto a protezione perché portata sulla nuca: insomma la cinesica è coerente!

Ripete più volte pezzi del suo teorema, soprattutto per le parti dubitative della paternità e l’invito ad andare in un posto noto e affollato. Si guarda intorno cercando consenso, ma non ne trova molto perché gli altri contestatori hanno argomentazioni meno superficiali e sono tra l’altro un mix di studenti, familiari e professori.

Mi trovo lì per caso diretto al Portuense, fermo in macchina perché la circolazione è bloccata dai manifestanti. Incrocio lo sguardo del tribuno: “Dadaista fancazzista!” esclamo.

S’illumina: “Giusto, forte… suona bene!”, Gli spiego che non avevo coniato uno slogan, mi stavo solo presentando.

Non capisce; gli rispiego in chiaro che appartengo alla categoria dei docenti. Vedo la sua espressione farsi incerta. Ci sono due donne nei pressi che stanno seguendo il dialogo. Una s’avvicina, scortata da un ragazzo e una ragazza, e scandisce:” Anche io sono una dadaista fancazzista. Può motivare il suo punto di vista?” Il corpulento non sa chi guardare, cosa fare e biascica un “De che?”

“Del fatto che lei tenta di appropriarsi di una protesta di cui non ha capito il senso e non conosce i contenuti. Noi viviamo il digitale e non rifiutiamo la DAD, ma abbiamo le nostre richieste” interviene il ragazzo. “E vuole buttarla in caciara insultando le donne…” s’inserisce l’altra (probabile) professoressa, alla quale non è sfuggito che l’urlatore reiterativo identificava l‘intero colpevole corpo docente solo con le donne.

Il vigile all’improvviso sollecita, a colpi di fischietto, me e gli altri automobilisti in coda a imboccare la svolta a sinistra liberata finalmente dalle transenne. La prima professoressa mi rassicura: “Vada che sta bloccando la fila, ci pensiamo noi…”.

Lascio il corpulento al suo destino, dialetticamente problematico.

Sapienza 2020: scattante a marzo, incerta a settembre

Quelli erano studenti delle superiori, con i loro problemi e le loro istanze.

Leggo continuamente di “Scuola e DAD” come se dalla primaria all’Università la didattica a distanza non ponesse tutta una gamma diversa di problemi e soluzioni. Ma come la stanno vivendo veramente la didattica a distanza i nostri studenti della Sapienza? La domanda mi rimbalza in testa da tempo, da quell’email che comincia con “Bello lo scatto a marzo 2020…” e offre, con toni a tratti graffianti, un’analisi sintetica e puntuale.

Da qui è nato un “cenacolo del sabato” a tema. I cenacoli sono degli appuntamenti di novanta minuti on line con gli studenti (massimo 14) su Zoom o su Meet per confrontarci nella maniera più interattiva possibile: vietato proiettare slide, tutti sullo schermo, tutti hanno la possibilità d’intervenire, le regole degli interventi sono quelle del brainstorming (quasi). E in quell’occasione è nata l’idea di ascoltare un numero significativo di studenti per capire il loro rapporto con la DAD.

Sottolineo “ascoltare” che è cosa ben diversa da “sondaggiare” che del resto è intransitivo e quindi non prevede il complemento; è già mi sembra una metafora di mancata attenzione individuale.

Premesso che:

  • gli intervistati (56% donne, 44% uomini) sono soltanto studenti dei corsi di laurea magistrale della Sapienza: 115 in totale, di cui 58 del Dipartimento Coris, poi Lettere, Ingegneria dell’Informazione, Architettura, Economia, Scienze Politiche
  • non erano previste risposte chiuse, ma interviste prevalentemente a risposta libera con possibilità di più risposte; per questo il totale non fa 100% tranne che per le prime due domande
  • l’indagine ha riguardato l’intero 2020; quindi il secondo semestre dell’anno accademico 19-20 (mesi marzo- luglio) e il primo semestre dell’a.a. 20-21 (mesi settembre -dicembre)

sintetizzo i risultati che pongono l’accento sulla sostenibilità del webinar (durata e modalità di progettazione e gestione) e sulla carenza che avvertono di più: la vita universitaria che la pandemia gli ha sottratto.

Gli studenti e la DAD: il webinar sia sostenibile!

  • Come/dove hanno seguito le lezioni: 93,5% a distanza, 6,5% in aula. Poco da commentare: è un dato di fatto
  • Gradimento complessivo della gestione della DAD: positivo, ma con una sensibile differenza tra il secondo semestre dell’a.a. 2019-2020 (marzo-luglio 2020) e il primo semestre 20-21 (settembre -dicembre 2020): si passa da un gradimento espresso dall’84% degli studenti al 66% con una significativa perdita di 18 punti. Nell’e-mail dello studente c’è la spiegazione: il tentativo di gestire la contestualità della lezione in presenza e a distanza è stato uno sforzo eroico ma diseconomico e controproducente. Insomma, gli studenti ci stanno dicendo che abbiamo reagito molto meglio a marzo dell’anno scorso nell’emergenza, quando siamo passati dalla sera alla mattina dall’aula allo schermo, che non da settembre in poi quando abbiamo tentato di gestire una contestualità tra “in presenza” e “a distanza” che avrebbe richiesto un’organizzazione e un supporto tecnologico molto più strutturati
  • Difficoltà con la DAD non dipendenti dall’Ateneo o dai docenti: al primo posto la carenza costante o episodica di banda (56%), maggiori difficoltà d’apprendimento (41%), sovraffollamento o inadeguatezza degli ambienti familiari o in affitto (31%), indisponibilità luoghi pubblici per il collegamento (21%), carenza device (18%)
  • Maggiori difficoltà di apprendimento (più in dettaglio): al primo posto con un significativo 69% la mancanza della relazione analogica con gli altri studenti, cioè la mancanza di una vita universitaria. Poi la mancanza del rapporto in presenza con i docenti (45%), difficoltà di concentrazione durante le lezioni (40%), riduzione della socialità culturale (eventi, festival, hackathon…) 35%, mancata emancipazione dal clima familiare (30%), difficoltà di accedere ai materiali didattici on line (16%)
  • Difficoltà con la DAD ricollegabili all’Ateneo e ai Docenti: lezione tradizionale senza tener conto delle diverse esigenze di un webinar (55%), mancato ripensamento dell’orario (insensate le lezioni di 4 ore) 41%, troppe ore consecutive di lezione a schermo (36%), resistenza dei docenti alla messa a disposizione delle lezioni registrate (32%), inadeguatezza della tecnologia d’aula (30%), instabilità del collegamento dall’aula (30%)
  • Gradimento delle modalità di erogazione della DAD: solo a distanza (mesi: marzo-luglio 20) raggiunge l’80%, mista (in presenza e a distanza) con streaming da ambienti privati del docente si attesta al 77%, per la mista ma con streaming dall’aula il gradimento crolla al 19%; lezioni video registrate con fruizione nell’orario di lezione oppure “on demand” fanno registrare un 37%
  • Cosa non perdere della DAD, “dopo”: ricevimento degli studenti (per evitare i tempi degli spostamenti): 61%. Lezioni/incontri con grandi esperti impossibilitati alla presenza in aula: 53%. Cenacoli (nel senso già chiarito): 51%. Registrazione delle lezioni fruibile dagli studenti: 48%. Sessioni domande (studenti) e risposte (docente): 33%. Collaborazione a progetti di gruppo: 29%

La perdita del corpo degli altri: senza fisicità non c’è energia

Mi dovrei sentire un criminale pandemico perché ho voglia di un aperitivo con gli amici, perché vorrei tornare a giocare una partita, perché vorrei strapazzare di coccole la mia ragazza che è dell’epicentro della sfiga (Bergamo, n.d.r.) e sono mesi che ci massaggiamo e basta… Sì, magari! Pure il T9 mi prende per il culo. Ci messaggiamo e basta… capisce, prof? Messaggiamo e BASTA!

Immagine tratta da “il perfetto criminale pandemico” video di Marcantonio Lunardi per #Endecameron20

Certo che lo capisco: la distanza dal corpo dell’altro (compagna/o, figlio, genitore, amico che sia) perché può essere portatore del male, è una rinuncia sempre più destabilizzante perché innaturale e protratta da troppo tempo.

Ecco in questo messaggio, nel senso che è nelle righe e tra le righe, ci sono molte delle ragioni che mi hanno indotto a sviluppare l’indagine sul rapporto degli studenti con la DAD e, inevitabilmente, con il distanziamento fisico: serve anche ad aiutare loro e noi stessi a “elaborare il trauma”.

Certo, ci sono già molte indagini e analisi sul tema della DAD ma quasi tutte prendono le mosse da un sondaggio a risposte chiuse che, come dicono gli studenti, finisce per farli interagire in maniera troppo standardizzata e li costringe a mettere una spunta anche su argomenti che “non sentono”.

Per questo ho proceduto con le interviste a risposta prevalentemente libera: è stata una piccola impresa, perché intervistare 115 studenti dandogli libertà di parola e di forma, ha comportato tempi lunghi sia d’ascolto sia per sintetizzare le risposte in categorie raffrontabili.

Ed ecco venire fuori cosa gli manca veramente: non l’aula fisica in sé ma nel contesto sociale della vita universitaria. Vita che è fatta sì d’interazioni con i docenti e i colleghi per lo scambio di conoscenze, di biblioteche e luoghi di ricerca, ma anche di educazione alla socialità, di appunti che sanno di pizza, di educazione sentimentale, di incontri e scontri relazionali e ideologici, della scoperta di nuovi punti di vista, dell’emancipazione dal clima familiare: un cordone ombelicale che hanno visto riannodarsi proprio quando sentivano che sarebbe stato funzionale tagliarlo.

La fisicità, la cui irrinunciabile importanza ci è stata resa evidente proprio dalla privazione della stessa, è anche la condizione per una circolazione di energia rigenerante. Fondamentale anche per noi docenti. Sotto questo profilo la presenza fisica di più persone in uno stesso posto con uno scopo comune determina una condizione non surrogabile, ben raccontata da una Luisa Carrada con accenti alla Neruda:

In aula, con la presenza viva, butti fuori un sacco di energie, ma quelle energie ti tornano. Mi è capitato di percepirle fisicamente, come onde benefiche di una risacca incessante, che ti ricaricano in continuazione. Prendi, dai, riprendi, ridai. 

Online non è così. Scambi tantissimo lo stesso, ma su un piano intellettuale, mentale. Delle conoscenze, anche dell’entusiasmo e della motivazione. Ma non sul piano energetico: l’energia esce, ma non rientra.”

Highlights da un webinar: anche questa è DAD

Da anni, da quando Domenico De Masi all’inizio degli anni 2000 mi chiamò per la prima volta nella sua aula a tenere una lezione-testimonianza sulla comunicazione interna, incentivo gli studenti a trovare forme espressive che gli risuonino dentro, uscendo dallo schema “tu docente parli, io studente prendo appunti”. Per individuare forme più interattive di metabolizzazione non solo delle conoscenze che condividiamo ma anche delle emozioni. Mettere in moto l’intelligenza emotiva vuol dire far fare ginnastica alla conoscenza, farla nostra in maniera quasi organolettica.

E quindi accanto a pptx, prezi, video abbiamo visto accumularsi nel tempo narrazioni degli studenti sempre più originali: fumetti, calendario delle lezioni/avvento, podcast, grafica animata, foto gallery, rap, puzzle… ma il fotoromanzo (se preferite, PhotoNovel) ancora mancava almeno nella versione “Highlights”!

Sedici scatti tratti da un webinar molto partecipato con un gruppo, questa volta misto, di effervescenti laureandi, neolaureati e giovani professionisti di Napoli e dintorni.
Hanno colto passaggi significativi, con grande fedeltà alle cose dette ma anche alle cose che ho solo pensato: la grande empatia partenopea decodifica anche i pensieri segreti.

Quel webinar è stato così gratificante da mettere in discussione, per una volta, anche il “teorema Carrada” sull’energia rivitalizzante che richiede la compresenza fisica: come si fa a non emozionarsi e rigenerarsi sulla slide finale e su quell’inedito coraggioso accostamento gastropoetico in un’epoca di gastropatici stressati: Szymborska e Sfogliatelle è… pensiero laterale.
Napoli è spesso pensiero laterale. Senza sforzo: gli viene naturale!

La rivoluzione è rimuovere le scorie dell’abitudine

Sì, la DAD non è un accidente della pandemia: ha una storia e soprattutto ha un futuro di integrazione e affiancamento alle dinamiche d’aula e alla vita universitaria completa che speriamo di rivivere quanto prima, ma con una nuova consapevolezza.

Sarebbe profondamente sbagliato, diseconomico trascurare l’enorme bagaglio di esperienze, di diversa relazione che abbiamo sperimentato e appreso in questo periodo e la possibilità di ampliare le occasioni d’incontro e condivisione. E questo è ben presente nella visione degli studenti come emerge dalle risposte alla settima domanda: la didattica a distanza con funzioni integrative sembra irrinunciabile per fare evolvere e migliorare l’offerta formativa. Come ha detto uno di loro: “D’immobile e scontato alla Sapienza ci dovrebbe stare solo la Minerva”.

Parole che sembrano l’eco di quelle di Alberto Manzi su “la rivoluzione nella quotidianità”: “Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare.

E sì, dobbiamo cambiare sulla base di un progetto e una visione, non solo perché spinti da una necessità. Sia pure epocale come una pandemia.

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