Se un Christòs avesse detto “distruggete questi social e io in tre giorni li farò risorgere”… Dallo spettro linguistico di Uccialli al Gesù social

Non si può sminuire il concetto di responsabilità linguistica, così come non si può prescindere dalla sostenibilità linguistica, in particolare sul web: vediamo perché le parole, soprattutto per i personaggi di spicco, devono essere "pesate" con attenzione

Ognuno ritiene di poter individuare

nella contingenza dell’oggi gli ‘inizi’ di una qualche ‘ulteriore evoluzione’

lineare e meravigliosa, non perché essa sia provata scientificamente

ma solo perché corrisponde a quel che si desidera

O. Spengler, Il tramonto dell’occidente

 

Antefatto

19 marzo 2021. Francesco Merlo, su Repubblica, nel rispondere a una domanda rivoltagli da un lettore circa l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati, scrive: “(…) Ius, che in latino vuol dire succo, il succo della terra, ius soli, il fertilizzante della terra”; e, in ciò stesso, non fa altro che riformulare le parole di Renzo Piano. Come dire: mal comune mezzo gaudio.

Sui social network, si formano subito le fazioni e ci si scontra a colpi di lemmi e nozioni: l’ostinazione, talora, è una patologia più grave e preoccupante dell’ignoranza. Non si può sbagliare? Certo, soprattutto se non si è degli specialisti. Sarebbe cosa buona e giusta, tuttavia, non assumere impegni che non si possono mantenere al solo scopo di apparire colti. In parole povere, se vuoi fare il ‘figo’ (uso traslativo, parlata regionale), paghi dazio.

Se “ius soli” vuol dire “succo della terra”, allora lo “ius primae noctis” è il succo della prima notte; il che – intendiamoci! – non fa una piega: chi mai, di certo non senza prurigine, oserebbe negare il succo d’una prima notte d’amore? Potrebbe risultare un po’ più affannoso rendere lo “ius sanguinis”: “succo del sangue”? Improponibile, rognoso, a dir poco. E “summum ius, summa iniuria” che cosa diventerebbe? “Sommo succo, somma ingiustizia”? Sì, è vero, ci siamo fatta prendere la mano e ci stiamo abbandonando al parossismo dell’ironia. Però, se chiediamo a Wikipedia “chi è Francesco Merlo”, in risposta otteniamo “giornalista e scrittore italiano”; e noi da uno scrittore pretendiamo un po’ di rigore intellettuale.

A quei lettori che gli hanno fatto notare lo strafalcione Merlo ha risposto che “il significato di succo è nei dizionari”. È vero, è nei dizionari, mai i dizionari bisogna saperli leggere (per i più esigenti, dislocazione a sinistra: anticipazione di “dizionari” con ripresa anaforica tramite il clitico “li”). La corrispondenza tra lemma e significato non autorizza alcuno di noi a formare sintagmi, locuzioni e frasi d’arbitrio, fuorché per gioco. Di seguito, due motivi elementari e imprescindibili.

  • le lingue arcaiche sono basate sulle occorrenze: in pratica, quegli ‘sfaticati’ dei lessicografi, dopo aver compulsato tutta la letteratura di riferimento, riscontrano che un determinato verbo, per esempio, è adottato in un determinato modo e, solo a quel punto, ne registrano l’uso;
  • la referenza di un termine è decisiva, insostituibile: il termine X che, associato con un termine Y, ha un significato, potrebbe avere un significato del tutto diverso, se associato con un altro termine.

Naturalmente, non finisce qui, ma, in questo processo di semplificazione, preferiamo limitarci a quelli suesposti. Nel tentativo di recuperare la ragione e per conferire alla questione il valore che merita, ci rivolgiamo agli studi di Ernout e Meillet, due filologi indiscutibili e autori di un prezioso Dizionario etimologico della lingua latina, i quali, a proposito di ius, scrivono: “La parola in origine significava formula religiosa che ha forza di legge (…) Il valore religioso antico traspare ancora nelle espressioni iustae nuptiae, iusta funera, iusta auspicia”, anche se, in latino, a poco a poco, prevale il senso laico di “diritto, giustizia”.

Il senso della sostenibilità

Perché ricorriamo a un antefatto del genere all’interno di una rubrica sulla grammatica sostenibile? Anzitutto, è bene dire che, in questo caso, la lingua e, in particolare, quella ‘digitale’, sono state causa di discordie piuttosto aspre. Di conseguenza, abbiamo il dovere di occuparcene. In secondo luogo, non possiamo trascurare la questione morale: i personaggi che, sulla rete, diventano nodi linguistico-sociali o, diversamente, nella ‘vulgata’, influencer o, comecchessia, catalizzatori di parole e opere altrui non possono permettersi tanta superficialità perché le conseguenze sono devastanti. Immaginiamo che cosa sarebbe successo se l’ormai mitico Alberto Manzi, durante una delle puntate di “Non è mai troppo tardi”, avesse insegnato agli italiani delle castronerie! L’effetto, oggi, forse, è addirittura peggiore; non si deve né si può sminuire il concetto di responsabilità linguistica e, parimenti, non si può prescindere dalla sostenibilità linguistica, ovverosia da una lingua sistemica i cui autori abbiano – ci si conceda l’espressione! – una certa cautela previsionale. Ogni autore-personaggio, volente o nolente, è un nodo che domina su numerosi nodi sottostanti. Le sue parole subiscono quasi sempre una dilatazione semantica, pertanto devono essere ‘pesate’ attentamente, come si suol dire. I casi di Trump e Salvini ne sono una testimonianza. Ci rifiutiamo di credere che ora l’uno ora l’altro volessero generare derive xenofobe e, talora, purtroppo, anche sanguinose. Molto probabilmente non hanno fatto altro che sfruttare il codice d’una propaganda enfatica, tuttavia il risultato, in alcune circostanze, è stato disastroso: l’assalto di Capitol Hill, le piazze italiane inneggianti a Mussolini et similia.

Nello stesso tempo, non si può nascondere il cosiddetto rovescio della medaglia; gli erroracci di alcuni fanno spesso la fortuna di altri ormai noti al grande pubblico. Il latino, in tal senso, è una lingua molto colpita. Sul web, per esempio, la locuzione “una tantum”, che significa, in forma ellittica, “una volta soltanto”, diventa spesso “di tanto in tanto”, “occasionalmente”, mentre “plus”, avverbio – anch’esso latino – viene letto come “plas” et cetera. In sostanza, il fenomeno che si verifica molto di frequente potrebbe essere ridefinito come lo spettro linguistico di Uccialli. Il Trattato di Uccialli, com’è noto, venne stipulato nel 1889 tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia. Il documento, naturalmente, fu redatto in due lingue. Tuttavia, dalla lettura del testo italiano si apprendeva che l’Italia intendeva stabilire un protettorato sull’Etiopia, laddove nel testo amarico si riferiva che tra Italia ed Etiopia ci sarebbe stata una sorta di rapporto di amicizia e collaborazione.

Ad ampliare ancora la terminologia, potremmo parlare anche di tangenzialità: quante volte, sotto un post, leggiamo commenti che non hanno niente a che vedere col tema dei nostri enunciati? Un tempo, a scuola, tra i criteri per la valutazione di un elaborato era indicata la pertinenza alla traccia. Adesso, in un ambito di grammatica sostenibile, sarebbe bene restituire a questo criterio il valore regolativo che merita e, forse, non sarebbe sbagliato stilare un vero e proprio vademecum della sostenibilità linguistica, una specie di prontuario dell’educazione digitale. Non si tratta di mettere la signorina Maccabei con le spalle al muro chiedendole dove sono i Pirenei, come cantava Natalino Otto ne La classe degli asini. Tutt’altro obiettivo: abbiamo il dovere di capire che il web social è ormai il luogo della compartecipazione, è la nuova societas e, non a caso, ubi societas, ibi ius, che non significa “dov’è la società, lì è il succo”.

Adesso, facciamo uno sforzo cognitivo complesso! Quale sarebbe stata la sorte d’un Christòs, oggi, sulla rete? La provocazione è troppo forte? Sarebbe stato accolto di cuore oppure avrebbe subito una sorte peggiore di quella toccatagli duemila anni fa? Il suo linguaggio sarebbe stato sostenibile? Non poniamo alcun indugio nell’ipotizzare che, molto probabilmente, sarebbe stato combattuto e ostracizzato da haters e trolls, soggetti che, avvalendosi dell’anonimato, usano un registro aggressivo, ingiurioso e provocativo. Spesso, i loro interventi sono pure fuori tema o privi di contenuto, ma ciò non è casuale, è invece voluto al solo scopo di alterare la conversazione.

Se il Christòs avesse detto “distruggete questi social ed io in tre giorni li farò risorgere”, che cosa sarebbe successo?

“Distruggete questo tempio ed io in tre giorni lo farò risorgere!” (Gv 2, 19) è sicuramente uno degli atti linguistici più allarmanti di cui il Maestro sia stato capace, una sfida inaccettabile per i giudei dell’epoca e, soprattutto, per le autorità del sinedrio. Nel testo greco pervenutoci, leggiamo λύσατε τὸν ναὸν τοῦτον, (lỳsate tov naòv toùton, distruggete questo tempio), in cui è dominante la seconda persona plurale dell’imperativo aoristo attivo di λύω (lỳo), λύσατε, il cui significato è non solo quello di distruggere, ma anche quello di liberare, sciogliere. Di conseguenza, siccome il tempio è il luogo della rassicurazione divina, dell’autoriconoscimento cultuale e dell’identificazione storica, ciò che l’Uomo messianico chiede è la prova della separazione, della rinuncia a ciò che appare rassicurante, uno stato di privazione quale condizione del cammino spirituale. Accettando di distruggere il tempio, il discepolo accetta anche di separarsi da un padre, o da un fratello [“Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre” (Mt 10, 35)], accetta di lasciare tutto per diventare pescatore di uomini [“Vi farò pescatori di uomini (Mt 4, 19)]. Tra le altre cose, l’aoristo è un tempo oltre il tempo, esprime il valore puntuale dell’azione, non già la successione degli stati: potremmo dire che esso è il tempo della separazione per eccellenza.

Il popolo dei social network sarebbe pronto a capire la puntualità dell’azione? In particolare: sarebbe pronto a leggere “distruggete questi social e io in tre giorni li farò risorgere!” o si scaglierebbe contro il theiòs anèr (uomo divino)?

I pochi che ne capirono qualche cosa e, abbastanza ingenui, non frenarono l’empito del loro cuore e rivelarono alla folla i loro sentimenti e loro visioni, li hanno sempre messi in croce o sopra un rogo.[1]

 

 

 

 

 

[1] GOETHE, W. J., 1790, Faust – Eine Tragodie; Urfaust, trad. it di G. V. Amoretti, 1965, Faust e Urfaust, Feltrinelli, Milano, pp. 31-33

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