Della menzogna, ovverosia della ‘verità digitale’

Tutti diventiamo, anche per poco tempo, depositari di una qualche verità. Il mondo dei social network ne è la riprova, dove si tenta, a tutti i costi, di imporne una: ma in che modo, da utenti digitali, possiamo dire le nostre verità?

La sofferenza che io sento, invece, non è mai abbastanza sofferenza

per il fatto che si annulla come in sé nell’atto stesso in cui si fonda.

Sfugge come sofferenza verso la coscienza di soffrire.

Non posso mai essere sorpreso da essa perché

sussiste nell’esatta proporzione in cui la sento.

La sua trasparenza le toglie ogni profondità.

Non posso osservarla come osservo quella statua

perché sono io a produrla, a saperla.

J. P. Sartre, L’essere e il nulla

 

Nel 1949, a Parigi, per l’editore Gallimard, viene dato alle stampe Il secondo sesso, un saggio col quale la scrittrice francese Simone de Beauvoir si fa interprete e portavoce del femminismo: la scelta, per quell’epoca, è, a dir poco, rivoluzionaria. Puntare così nettamente al riscatto e all’emancipazione della donna vuol dire schierarsi contro un modello socio-antropologico atavico. Il successo dell’intrapresa, però, è limpido e, per certi aspetti, incontrastato, anche se il tribunale del Sant’Uffizio, nel 1956, lo inserisce nell’indice dei libri proibiti. Nonostante l’iniziale soppressione, infatti, pochi anni dopo, nel 1961, Il secondo sesso esce pure in Italia, bell’e tradotto, naturalmente. Un particolare colpisce l’attenzione della critica: sebbene una parte dell’opera sia dedicata all’esperienza vissuta, l’autrice vive, proprio in quegli anni, una relazione di totale sottomissione col proprio amante americano, sbugiardando sé stessa in modo clamoroso. È bene precisare immediatamente che non siamo qui per giudicare né, tanto meno, per condannare o accusare d’incoerenza Simone de Beauvoir; stiamo tentando, tuttavia, di esaminare il rapporto tra le idee o, diversamente, i propositi e la pràxis della quotidianità, tra la realtà linguistica e quella sociale. Jean-Jacques Rousseau è noto per avere scritto Emilio o dell’educazione; lo è molto meno per avere abbandonato i propri cinque figli; la qual cosa non ne fa sicuramente un esempio di coerenza o di educatore.

Si badi bene! Questa non è una rassegna delle contraddizioni d’autore, per così dire. È, invece, anzitutto e per lo più, una presa di coscienza cui si giunge con un semplice approccio investigativo-epistemologico e che si muta, nello stesso tempo, in una domanda: perché siamo talmente ossessionati dalla verità o dall’idealità che essa include da non sottrarci quasi mai al suo elogio? In altri termini, potremmo affermare: non si sente mai alcun essere umano dichiararsi, con audacia, portatore di menzogna, fuorché si tratti d’un novello Eubulide […avrebbe riformulato l’affermazione di Epimenide “ψευδόμενος, pseudòmenos, sto mentendo”, (DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, 2005, Bompiani, Milano, pp. 258-259)]. Tutti, a vario titolo, diventiamo, anche per poco tempo, depositari d’una qualche verità; e il mondo dei social network n’è la riprova: dal presunto complottista al giornalista scrupoloso, nessuno resiste al fascino del Savonarola digitale pronto a denunciare le nefandezze dello spirito comunitario, la corruzione dei costumi e le menzogne altrui. Noi stessi, nello scegliere di scrivere su questo argomento, molto probabilmente, abbiamo istituito lo spazio ‘sacro’ ed alienante della contraddizione.

Rainer Maria Rilke, ne I quaderni di Malte Laurids Brigge scrive: “Bisognerebbe saper attendere, raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide.” (RILKE, M. R., 1910, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, trad. it. C. Groff, 1988, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Mondadori, Milano, p. 13). Tuttavia, nel momento in cui lo scrive, commette il solito inevitabile e grossolano errore: annunciare un principio che viene violato nell’atto stesso dell’annuncio.

Sembra, pertanto, che la verità, almeno quella filosofico-letteraria, non esista affatto. E, se esistesse, sarebbe assai pericolosa, la premessa del delirio collettivo, di cui abbiamo prova mediante la formazione dei regimi totalitari, costruiti proprio sulle idee dominanti e sulla presunta verità. La cosiddetta ‘verità del pensiero staliniano’, per esempio, va scoperta tra le pagine di Arcipelago Gulag di Solženicyn o nella trasposizione narrativa di 1984 di Orwell.

 

Dalle vittime apprendi che ti somministrano clisteri salati per bocca e che poi per giorni nel box la sete ti tormenta. Oppure che ti scorticano a sangue la schiena con una grattugia e poi te la bagnano con l’acqua raggia. Al comandante di brigata Rudol’f Pincov toccarono l’uno e l’altro; inoltre, gli infilavano degli aghi sotto le unghie e lo gonfiavano d’acqua: esigevano che firmasse un verbale in cui dichiarava di aver voluto muovere contro il governo una brigata di carri armati durante la parata di ottobre (SOLŽENICYN, A., 1973, Archipelag Goulag, 3 voll., trad. it. di M. Olsufieva, 2017, Mondadori, Milano, p. 102)

 

Ma prima di morire (nessuno parlava di certe cose, eppure lo sapevano tutti), bisognava passare attraverso la procedura della confessione: accucciarsi per terra e implorare misericordia, il crac delle ossa rotte, i denti fracassati, i grumi di sangue rappreso tra i capelli. Perché dovevi sopportare tutto questo, visto che la fine era stessa? (ORWELL, G., 1949, nineteen eighty-four, trad. it. di F. Cavagnoli, 2021, Feltrinelli, Milano, p. 116)

 

Di fatto, ci si può opporre con veemenza alla tesi secondo cui la verità non esiste: nei contesti digitali, in pratica, accade questo, ripetutamente e pericolosamente, e si tenta, a tutti i costi, d’imporne una; non a caso, si generano dei vuoti linguistici che vengono riempiti per lo più con l’aggressività o – ancora una volta – con la menzogna, ovverosia con ciò che ormai conosciamo come fake news. In precedenza, abbiamo trattato in più circostanze la questione delle devianze socio-linguistiche della rete:

In tutti questi casi, la bugia è il vettore della comunicazione e lo è in modo schiacciante. Bisogna chiedersi, a questo punto, se la bugia sia, come si crede comunemente, la negazione della verità, il suo opposto o un oggetto del linguaggio, un modo dell’essere nel linguaggio. Anche ammettendo che esista una verità che, in qualità di utenti digitali bisognosi, possiamo e ‘dobbiamo’ proclamare con urgenza, quasi fossimo condannati alla metafisica, in che modo possiamo dirla? Il dire, d’altronde, è essenziale alla verità stessa, n’è la funzione. Se si tratta di Dio, allora è un che di soprasensibile e, semmai, intimo, quasi incomunicabile. Se il tema è quello delle emozioni, non si può fare a meno di ammettere che siamo fortemente condizionati dall’istinto di aggregazione. Dunque: diciamo per essere inclusi nel gruppo. Se spostiamo il focus sulla società e il comportamento dei consociati, allora interviene il legislatore a sancire le azioni scorrette, neutralizzando il nostro amore per la verità. Insomma, in ogni caso, finiamo col crearne una, coll’adattarci e, quando l’adattamento risulta opprimente, ricorriamo ai canali della comunicazione immediata per dare sfogo alle nostre frustrazioni.

Qui, s’incontrano in modo virtuoso e proficuo la linguistica e la psicologia e ci consentono di rispondere alla domanda su come proviamo a raccontare le nostre verità. Le figure retoriche di cui ci serviamo per fare approvare i nostri pensieri e i meccanismi di difesa rappresentano il materiale ideale del gioco polimorfo di cui siamo protagonisti. L’intellettuale medio, il politico, l’influencer et alii si sentono in dovere di ‘dire la loro’, come si suol dire, su tutti gli argomenti in voga, quand’anche i temi non siano di loro reale interesse. Devono farlo perché il consenso del popolo social è vitale. In ciò, non potendo oltrepassare i limiti del decoro di ruolo, ricorrono, il più delle volte in modo inconsapevole, alla litote, alla negazione, all’aposiopesi, alla formazione reattiva, alla sublimazione et ceteris. La litote, figura retorica molto usata, si sviluppa nell’attenuazione di un giudizio: diciamo che le scelte di tizio non sono eleganti perché non vogliamo dire che sono pessime. Nell’attenuare il giudizio, però, talora, si tende a respingere un istinto aggressivo, mettendo in atto l’opposto: formazione reattiva, per l’appunto! È molto diffuso il frasario politico, palesemente e impunemente mendace, con cui il signorotto di turno, non senza spocchia, dice “non è il caso che io vi ricordi quanto ci siamo spesi per fare approvare questa legge”: dissimula di voler mettere in risalto ciò che è stato fatto; è il caso della preterizione. Coloro che, nella vita, non sono riusciti ad appagare i propri desideri e le proprie aspirazioni non esitano a twittare e postare formule di elevazione spirituale e morale, riferendo a degl’interlocutori invisibili e, forse, inesistenti quant’è bella la poesia, quant’è affascinante la filosofia e quanto sono convincenti gl’idoli della letteratura, ma divenendo, nello stesso tempo, gregari di sé stessi, idolatri compulsivi e instancabili e acerrimi nemici di tutto ciò che offende la nobiltà del pensiero. Gli psicologi definiscono questo meccanismo sublimazione.

Il fine di questo lavoro non è quello di proporre una sinossi esplicativa di figure retoriche e meccanismi di difesa. Tra le altre cose, per quest’ultime, sarebbe opportuno rinviare alla competenza d’uno studioso di psicologia. In sintesi, la questione, che resta sicuramente insoluta, è la seguente: verosimilmente (avverbio insidioso quanto mai) e in specie sul web, la pretesa di dire il vero racchiude in sé un’antitesi, vale a dire il principio del proprio annientamento o – meglio – dell’autodistruzione. La scrittura imperativo-esortativa anche di un solo “credetemi!” non è l’affermazione d’una qualche verità, ma la trasposizione d’un grido d’aiuto che siamo sempre sul punto di lanciare. Allo stesso modo, dire “questo è giusto”, “questo è sbagliato”, conferendo alla copula il pondus della relazione con l’altro, significa anteporre l’esclusione alla possibilità, fondare il discorso sulla privazione.

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